CANICATTI' NELLE SUE ANTICHE VICENDE STORICHE,

TRA MITI, TRADIZIONI E LEGGENDE

di Diego Lodato

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Le antiche vicende della storia di Canicattì si intrecciano con tradizioni, miti e leggende, che ne sono un suggestivo coronamento e costituiscono un interessante patrimonio culturale.

Assai antica è l’origine di Canicattì. Già l'abate Rocco Pirro, scrivendo nella prima metà del Seicento su Canicattì nella sua Sicilia Sacra (1638), la definiva "oppidulum antiquum", cittadina antica. L'autore del Lexicon Topographicum Siculum ne fa risalire l'origine al tempo degli Etnici e dei Cristiani. Egli scrive testualmente: «Cum Aetnicorum, tum Christianis temporibus locum mortales coluisse assequimur» (sappiamo essere stato il luogo abitato sia ai tempi degli Etnici che dei Cristiani). Con il nome di Etnici vengono indicati presso gli antichi scrittori cristiani, i pagani e gli idolatri, il che farebbe risalire l'origine di Canicattì ai tempi anteriori alla nascita di Gesù Cristo.

Quel che afferma Vito Amico sull'antichità di Canicattì trova riscontro nelle asserzioni dell'autore dell'Aurea Fenice, il cappuccino fra Salvatore da Naro, tanto stimato come uomo dotto da Giovanni Andrea Massa e dal Mongitore. Lo storico narese, vissuto tra il 1658 e il 1733, non dimostra dubbio alcuno sull'esistenza di Canicattì al tempo dei Sicani. Egli sostiene che Canicattì era l’antica Corconiana, fortezza sicana sopra il fiume Acragante, cioè il fiume Naro.

Che Corconiana corrisponda a Canicattì lo si può ricavare anche dall'Itinerarium Antonini, che la pone a metà strada tra Calloniana e Agrigento, che è quanto si riscontra nella odierna realtà. La sua compilazione si fa risalire agli inizi del III secolo d.C., e cioè ai tempi di Caracalla. Nell’Itinerarium Antonini sono elencate 372 grandi vie dell'Italia e delle province romane, con le distanze tra una località e l'altra. Certo, la distanza di dodici miglia da Calloniana e di tredici da Agrigento può sembrare esigua; ma bisogna considerare, come scrive il Cluverio a proposito della distanza di novantuno miglia tra Catania e Agrigento, che tali distanze sono valide, se si calcolano in linea retta. E' poi lo stesso Filippo Cluverio nella sua Sicilia Antiqua ad avvalorar la tesi che Corconiana fosse Canicattì, quando scrive che essa sorgeva sulla riva sinistra del fiume Acragas, che dal popolo, egli dice, è ora chiamato fiume di Naro.

 

Vitosoldano

 

La storia di Canicattì è strettamente legata a Vitosoldano, dove era fiorente nel V secolo a. C. la fortezza di Mozio, fondata dagli acragantini a comune difesa dei Sicani ellenizzati. Al riguardo narra Diodoro che nel 451 a.C. Ducezio, capo dei Siculi, marciò contro di essa dalla Sicilia orientale e la cinse d'assedio. Egli riuscì ad espugnarla, battendo anche i siracusani, accorsi in sua difesa. Ma questi nell'estate dell'anno seguente riuscirono, con un nuovo generale, a battere le truppe di Ducezio, mentre gli acragantini (gli abitanti del territorio, e non della città di Agrigento, precisa l’autore degli Annali della Fulgentissima) liberavano Mozio, ancora occupata da forze duceziane.

 

CANICATTI’ – Palazzo La Lomia

(luogo in cui sorgeva, secondo la leggenda, la massaria del feu di la ficu)

 

Sull’origine di Canicattì si è sbizzarrita la fantasia popolare. Si narra che sull’altura della Badia si ergeva in epoca remota la massaria del cosiddetto feu di la ficu. Il proprietario di tal feudo, noto come lu Principi di la ficu, preoccupato per le continue incursioni di ladri e saraceni, che tenevano lontana la gente dalla sua proprietà, fece allora diffondere il bando che a chiunque si fosse insediato nel suo territorio avrebbe concesso mezza salma di terra e avrebbe garantito la sicurezza personale. Il bando sortì in breve gli effetti desiderati. Lu feu di la ficu si popolò e gli abitanti si espansero gradualmente anche nella valle, dove scorreva il torrente, il vallone, tra canneti infestati da zanzare e aria inquinata. Sicché a quanti chiedevano dove abitassero rispondevano: A li canni cattivi. E da ciò sarebbe derivato, secondo tale tradizione, il nome di Canicattì.

Quando gli Arabi invasero e distrussero Mozio, gli abitanti cercarono scampo nella vicina Corconiana, che i conquistatori ribattezzarono, come erano soliti fare con tutti i luoghi conquistati, con i termini della loro lingua, dando il nome di Al-Qattà (tagliatore di pietre) alla parte alta, per la presenza sul luogo dei lavoratori delle cave, e quello di Handaq-attin (fossato di argilla, costituito dal cosiddetto vallone del fiume Naro) alla parte bassa: donde il nome di Canicattì.

La gente avvolse nella leggenda le gesta del conquistatore, tramandandone la figura ai posteri con l'appellativo di Vito Soldano e l'immagine di spietato tiranno, che avrebbe imposto il suo nome alla contrada distrutta e avrebbe terrorizzato i sudditi con continue esecuzioni capitali. Si narra che egli estraesse a sorte gli sventurati destinati al supplizio e ne rinchiudesse uno al giorno nel ventre arroventato di un vitello di bronzo. La leggenda si sofferma in particolare su un anziano padre, corso in lacrime alla corte di Carlo Magno, per chiedergli di intervenire per salvare la figlia. In verità il fondatore del Sacro Romano Impero era già morto da tredici anni quando gli Arabi invasero la Sicilia, ma le leggende non vanno tanto per il sottile, sicché le confusioni sono frequenti. Del resto anche la figura di Vito Soldano appare palesemente confusa con quella di Falaride. E un motivo c'è: il regime di terrore instaurato dal sultano oscurò talmente la fama del tiranno ellenico da farne tutt'uno.

A far giustizia sarebbe stato, secondo la leggenda, il mitico Orlando. Si narra che nel corso della battaglia, approssimandosi il tramonto, la Vergine stessa sia accorsa a fermare il sole, onde consentirgli di battere il sultano, costringendolo poi a fuggire e sparire in una misteriosa grotta con il suo immenso tesoro. Quindi Orlando avrebbe concesso a quell’anziano padre i domini del sultano e sarebbe ritornato in Francia.

E ciò è emblematico, perché fa pensare alla donazione che dei domini dell'emiro Melciabile Mulè fece il Conte Ruggero al cugino Salvatore Palmeri. Come emblematico è pure il prodigio del sole, che si riscontra anche nella tradizione relativa al Conte Ruggero. Pure emblematico è quanto si racconta del tesoro del sultano. L'allusione all'immensa ricchezza prodotta dagli Arabi con il rilancio dell'agricoltura e del commercio è evidente. E quel che si racconta della risposta data un giorno dal cosiddetto Gran Turco a chi era andato a fargli visita: «Se non si trova il tesoro di Vitosoldano, povera Sicilia!», ha pure un suo recondito significato, poiché pare che con ciò si voglia affidare il prospero destino dell'isola allo sviluppo agricolo.

Sul tesoro di Vito Soldano, nascosto nella misteriosa grotta, si è sbizzarrita la leggenda, ma - osserva il Sacheli - sinora nessuno è riuscito: ora per l'inavvedutezza di chi non ha obbedito ai comandi degli spiriti e non è andato solo, per cui ha trovato soltanto, come racconta il popolo, callaruna chini di scorci di vavaluci; ora per la paura che ha fatto retrocedere atterrito l'audace, per raccontare poi di aver sentito il suono agghiacciante delle catene, la furia diabolica del vento, e di aver visto gli spiriti nani con i berretti rossi in testa, accovacciati sopra botti stracolme di oro. Quel che si racconta, del resto, fa parte di quelle leggende cosiddette plutoniche, comuni a tutte le località già in possesso di dominatori stranieri, specie arabi, i quali, costretti a fuggire, avrebbero affidato alla terra, anziché ai loro nemici, i propri tesori.

Ma, leggende a parte, un tesoro a Vito Soldano è stato realmente trovato: e ciò agli inizi del nostro secolo, quando un anziano possidente, volendo trasformare un suo campo in vigneto, iniziò i lavori di sbancamento del terreno. E da sotterra allora venne fuori un'anfora colma di lucenti monete d'oro, una parte delle quali il vecchio fattore distribuì agli operai e il resto tenne per sé. Erano monete del VII secolo d.C., del tempo cioè dell'imperatore d'Oriente Costantino IV Pogonato. E ciò è un'ulteriore conferma della prosperità di Mozio in età romano-bizantina.

Scesi i Normanni in Sicilia nel 1061 con il Conte Ruggero, ne iniziarono la conquista, finché nel 1087 occuparono tutte le fortezze esistenti tra il fiume Platani e il Salso. Il territorio di Canicattì era difeso dall'emiro Melciabile Mulè, che fu sfidato a singolar tenzone dal cugino del Conte Ruggero, Salvatore Palmeri, il quale, battutolo, entrò in possesso della baronia di Canicattì e di altri feudi, secondo quanto si legge negli Annali di fra Saverio Cappuccino e nell'Aurea Fenice.

Mentre Salvatore Palmeri si batteva a Canicattì con l’emiro Melciabile Mulè, il Conte Ruggero affrontava gli arabi in battaglia campale presso il Monte Saraceno, ricevendo, secondo la tradizione, l’aiuto miracoloso da parte della Madonna, accorsa in suo aiuto a fermare il sole per consentirgli di riportare la piena vittoria. Ottavio Gaetani nella sua Isagoge ad Historiam Sacram Siculam, come anche Rocco Pirro nella sua Sicilia Sacra, parlano invece di una fontana zampillante sgorgata improvvisamente per intervento della Vergine, in seguito alle preghiere del Conte Ruggero, assai preoccupato nel vedere i suoi soldati spossati dalla sete. Il Massa però accenna nella Sicilia in prospettiva a entrambi i prodigi.

Ottenuta la vittoria, il Conte Ruggero, secondo la tradizione, avrebbe inviato al Castello di Canicattì, su un carro trainato dai buoi, le armi strappate ai nemici, perché fossero consacrate all'Immacolata. Quivi rimasero conservate per secoli queste armi, come anche la spada dello stesso Conte ed il suo scudo, istoriato con le scene degli Orazi e Curiazi, che, secondo la testimonianza di un secolo e mezzo fa del sindaco Raimondo Gangitano, «ammiravasi come capo d'opera nobilmente lavorato ed inciso a magnifici rilievi d'oro». Quello che è certo è che le armi sono state, come afferma il Lexicon, «ivi raccolte dagli antichi Baroni avidi di gloria».

L'abate benedettino Vito Amico, che quest'armeria ebbe modo di vedere nella prima metà del Settecento, la definì «celebris per insulam universam», famosa in tutta la Sicilia, e descrisse con stupore le militari armature di ogni sorta e dimensione, specie cavalleresche, intessute d'oro e d'argento. E restò ammirato dinanzi alla eccezionale spada che il popolo diceva essere stata un tempo del Conte Ruggero.

 

Statua dell’Immacolata

Protettrice di Canicattì

Queste armi venivano portate in processione, la domenica in Albis, per la tradizionale festa locale dell’Immacolata, dallo Squadrone della Maestranza, una corporazione di mastri che in solenne processione sfilavano in giacca lunga, calzoni a ginocchio e calze bianche, e ogni anno eleggevano un capitano e quattro artiglieri, con l’incarico di sparare durante la festa bombe e mortaretti.

Il culto dell’Immacolata è stato sempre intenso a Canicattì. Sul suo bel volto il popolo ha tanto fantasticato, parlando di opera degli Angeli. Si racconta che l'umile frate scultore, arrivato al volto, sia rimasto esitante e siano scesi gli Angeli in suo soccorso a guidarne la mano. Ma c'è chi sostiene che sia stata la stessa Madonna ad apparire al frate e a farsi ritrarre, aiutandone direttamente la mano.

L’Immacolata è la protettrice di Canicattì. Ma c’è anche San Diego come protettore.

San Diego- Protettore di Canicattì

Non c'era nel passato calamità in cui i canicattinesi non si prodigassero a portarne in processione la statua, insieme con l'Immacolata della chiesa di San Francesco, per impetrare la fine del flagello o per implorare la pioggia o la fine di essa, quando questa era eccessiva. Sull’introduzione del culto di San Diego a Canicattì è sorta la leggenda. Essa racconta che un giorno una statua di San Diego stava per essere portata, sopra un carro tirato dai buoi, dalla Spagna a Caltanissetta. Ma allo stretto di Naro, spossati e assetati, gli uomini si erano fermati per dissetarsi, cercando, però, l'acqua invano. Li soccorreva allora San Diego, facendo zampillare ai suoi piedi una sorgente di limpida acqua, detta poi la fontana dello Stretto. Era il primo prodigio; il secondo avveniva a Canicattì, davanti alla chiesa di San Sebastiano. Quivi i buoi piegavano le ginocchia e non volevano sentirne più di continuare il viaggio: "Non ci fu forza umana - scrive il Sacheli - che valesse a smuoverli.

Il Santo voleva essere protettore di Canicattì, e così fu fatto". Quella statua che era destinata a Caltanissetta rimase a Canicattì, dentro la chiesa di San Sebastiano.

CANICATTI' - Chiesa di San Diego

Anche sull’origine del culto di San Pancrazio la tradizione ha una propria versione. Si dice che, quando il 3 febbraio 1467, Andrea De Crescenzio, barone di Canicattì, ottenne la licentia populandi, cioè il diritto di aumentare la popolazione, si prodigò a farvi affluire gente da altri territori, invogliandola con agevolazioni e concessioni varie. Vennero allora a stabilirsi a Canicattì numerosi abitanti di Taormina, i quali, devoti di San Pancrazio, ne introdussero il culto, anzi fecero sì che ne diventasse il patrono. E si prodigarono a dedicare a lui la vecchia Matrice, che sorgeva presso il Castello e poi, perché fatiscente, venne ricostruita nel piano della Badia.

In questo piano sorgeva il monastero delle benedettine, monastero di rigida clausura. L'alone di mistero che circondava la clausura del monastero faceva sbizzarrire la fantasia popolare. Si racconta in particolare di un tentativo di incursione fatto dal celebre bandito Antonino Di Blasi da Pietraperzia, detto Testalonga, terrore della Sicilia. Così ne parla il Sacheli: «Il famoso bandito tentava di entrare nella chiesa dei SS.Filippo e Giacomo per penetrare nell'attigua ricca badia delle monache benedettine. Atterrata una porta laterale, che si vede ancora, ma murata, vide pararglisi innanzi un vecchio venerando dalla lunga barba bianca, il quale col pastorale gli vietava l'ingresso: era San Benedetto, e la badia fu salva».

   

CANICATTI - Chiesa Badia e un particolare dell' interno

L’arcano mistero di quell’atmosfera claustrale, pervasa di penombre, di silenzio e solitudine, coinvolgeva e avvolgeva anche l’ambiente esterno, sicché nel buio della notte l’immaginario collettivo vedeva spettri e fantasmi vagare nei dintorni.

Tra la chiesa della Badia e quella di Santa Barbara si aggirava, secondo gli antichi, un pauroso fantasma sul cui aspetto non tutti erano d'accordo, perché per alcuni era un mostruoso mulo con una strana gobba, mentre per altri era un immane ciclope, con le gambe divaricate tra i tetti delle due chiese. Di giorno non si faceva mai vedere da nessuno e non dava fastidio alcuno a chi si trovasse per caso a passare; ma di notte si scatenava con le sue visioni tenebrose e terrorizzava quanti si trovavano a passare. Era talmente indefinibile tale fantasma che il popolo lo chiamava unanime lu Cirrimbambulu di la Batia.

 

Contigua al chiostro della Badia c’era per il popolo e c’è ancora la cosiddetta Vaneddra di l'incantisimi, cioè la strada degli spiriti. Stretta tra il muro di cinta del monastero femminile benedettino e la parete dell'altura rocciosa su cui sorge il Palazzo La Lomia, non porta segni di abitazione alcuna o di vivente aspetto, né a destra né a sinistra, sicché nella solitudine e nell'oscurità della notte non c'era nel passato chi sfuggisse ai terrori di allucinanti visioni di indefinibili fantasmi.

 

CANICATTI’ – Vaneddra di l’incantisimi

E i racconti dettagliati di apparizioni di spiriti, che alcuni di più accesa fantasia facevano, diffondevano maggiormente la paura, tanto che anche i più ardimentosi, calate le tenebre della sera, si guardavano bene dal passarvi.

Poco più sotto della Badia, nel piano degli Agonizzanti, la fantasia popolare aveva ambientato un’altra leggenda, quella del cosiddetto picciliddu di l’Agurzanti. E un motivo c’era. Proprio in tale piano era ubicata la cosiddetta Ruota, cioè la casa di accoglienza degli infanti abbandonati, chiamati allora proietti. Raccontava la gente che un bambino in fasce giacesse derelitto la notte davanti alla chiesa di Maria SS. degli Agonizzanti. Era a tutti noto come lu picciliddru di l'Agurzanti, il quale faceva tenerezza ai notturni passanti; ma, una volta preso in braccio, cambiava sembiante e immobilizzava.

Di tali tradizioni popolari è bene tener sempre viva la memoria, perché non cadano nell’oblio e non vadano perdute.

Sono esse un arricchimento delle vicende storiche canicattinesi e segni suggestivi della concezione stessa della vita.

 

 

Prof. Diego Lodato

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