CAPITOLO TERZO |
Gli avevo messo nelle mani un pugnale affilato, senza rendermene conto, con il quale mi avrebbe ferita mille volte, senza volerlo, senza accorgersene, ma quella bugia era sola possibilità che avevo per convincerlo ad accettare completamente quel rapporto perverso. Il mio amore era più forte di qualsiasi raziocinio, ci affogavo dentro e non urlavo aiuto, tanto meno mi importava degli abiti zuppi, volevo affogare, lo volevo con tutte le mie forze. Era una cosa che non riuscivo a spiegare a nessuno, e la difendevo con tutta la mia determinazione. Il rapporto tra me e lui era un cristallo lucente e prezioso e io ci avevo costruito intorno un muro che la ragione non poteva valicare. E respingevo qualsiasi interferenza. - Perché non esci con quel ragazzo? Ogni volta che lo incontriamo alle manifestazioni cerca di avvicinarti e tu lo scansi. - Barbara avrebbe voluto che mi tirassi fuori dalla storia con Franco, ma lei non poteva capire, non avrebbe mai potuto immaginare di quale intensità e di quale grandezza era il legame tra noi. La mia vita scorreva serena, come quella di qualsiasi altra adolescente, ma quando ero con lui la sola cosa importante eravamo noi due, c’era una tale affinità di pensieri, di gesti, di emozioni e un’intesa perfetta. Vivevo in uno stato di continua eccitazione mentale, scrivevo poesie e leggevo tantissimo, e dipingevo, e mi tenevo lontana da qualsiasi coinvolgimento sentimentale, a parte quello per lui. Mi appagavano le piccole cose di ogni giorno e la frustrazione trovava sfogo in un universo di emozioni nascoste, vissute solo nel mio intimo, che non esternavo mai. - Stai diventando un scrigno chiuso, ti tieni dentro tutto. E io ho lavorato tanto per nulla. Stai facendo a pezzi tutto quello che avevamo costruito e pagherai un prezzo altissimo per questa tua testarda infatuazione. - Gabriele era diventato un nemico, cercava di smontare il castello di carta su cui si reggeva la mia esistenza, ma io volevo a tutti i costi che le cose restassero come erano. - Non è infatuazione, è amore. - - Va bene, è amore. E che senso ha amare qualcuno che non ti ama? L’amore è altro, è condividere, è partecipare con i propri sentimenti ai sentimenti degli altri. Lui in che misura partecipa ai tuoi sentimenti? - - Lui fa quello che la sua natura gli permette. Mi vuole bene, mi coccola, mi protegge. Non voglio altro. - - Se continui a mentire a te stessa io non posso aiutarti. - - Credo di non avere affatto bisogno di aiuto. Ora sto bene... - - Perché c’è lui? E quando verrà a mancarti, cosa farai? - - Lui ci sarà sempre, siamo amici, lo saremo sempre. - - Sono felice per te, mi stai dicendo che sei guarita? - feci cenno di sì con la testa, sapevo che lo avevo deluso, sapevo che non era affatto convinto che potessi fare a meno della terapia. I primi mesi che mi aveva avuta in cura le sedute avevano frequenza settimanale, il martedì e il giovedì, dopo circa un anno ci incontravamo solo il martedì. Con il tempo mi ero abituata a quell’appuntamento e ci andavo come andavo a scuola, con la stessa naturalezza. A metà del secondo anno di terapia, Gabriele aveva stabilito due sedute al mese, ma io continuavo ad andarci ogni settimana e lui mi riservava sempre un’ora del suo tempo, anche se non la pagavo. Aveva uno strano affetto per me, era disponibile, qualsiasi fosse la difficoltà. Per questo mi sentivo in colpa, ma era diventato insidioso e invadente, voleva sapere troppe cose di me, cose che non volevo dirgli, che riguardavano il mio rapporto con Franco. Ma soprattutto non accettavo il modo critico con il quale si opponeva alle mie decisioni, alle mie scelte. Gabriele mi aveva insegnato a contare solo su me stessa, e a fare solo ciò di cui ero convinta, ed ero convinta che la terapia non mi servisse più e che potevo farcela da sola. Il mio amore era con me giorno e notte, riempiva il vuoto della mia casa, la mancanza di affetto e di legami familiari, la mia vita orfana di madre, ma anche di padre. La naturale distanza tra due generazioni diverse per esperienza e cultura, tra me e mio padre era diventata immensa, eravamo due esseri di due pianeti estranei e anche se dentro di me avevo una stima e un amore infiniti per lui, non riuscivo a dirglielo. Papà era stato un partigiano, e quando lo dicevo era con orgoglio e venerazione, papà ci aveva cresciuti da solo, papà mi aveva aiutata quando ero ridotta ad un groviglio di carne inerte e senza anima. Era tutto questo ed era altro, cose che avrei voluto cancellare, papà che gridava, papà che mi faceva il broncio, papà che proibiva, che negava, che taceva. Quanto amore e quanta rabbia, quanto rancore e quanta riconoscenza, tutto mescolato in un brodo esplosivo di ansie e di emozioni, di gioia e sofferenza. E Franco nella stessa misura, ma in modo diverso, mi tormentava con le stesse contrastanti emozioni, l’amore assoluto disposto ad ogni sacrificio e una rabbia impotente che mi avrebbe dato la forza di uccidere. E poi c’era la carne, quella che non riuscivo più a dominare e che sempre più spesso tirava fuori le unghie e mi graffiava l’anima. Prepotente, aggressiva, struggente passione per lui, che più veniva repressa e più cresceva. Mentre lui amava Michele, si lasciava fare del male da lui, si lasciava picchiare, legare e sottomettere senza difendersi, senza ribellarsi. E del mio amore tenero, avvolgente e protettivo non sapeva che farsene, ero una femmina e non trovava nulla di attraente in me. - Ti piace farlo in questo modo? - - Non voglio parlarne con te. - Certo che non voleva parlarne, mi sembrò la cosa più perversa e disgustosa che si potesse immaginare, ma i segni delle corde sui suoi polsi li avevo notati da un pezzo e come altro avrebbe potuto spiegarli se non confessando che erano un’idea di Michele. - E se ti strangola mentre sei legato e indifeso? - - E’ solo questione di fiducia... - - Fiducia? L’ultima volta che avete litigato ti ho dovuto accompagnare in ospedale. - Ed era uno spettacolo da far rabbrividire, la sua faccia livida. - Non è violento quando facciamo sesso, è un gioco. Diventa cattivo solo quando lo faccio arrabbiare. - - E scommetto che si arrabbia sempre per la stessa ragione. Soldi. - - No, è gelosia... - - Devi essere proprio scemo. Devi esserlo, altrimenti non c’è una spiegazione. Geloso di cosa? - - Se vuoi saperlo... è geloso di te! - Era la più grossa stronzata che avessi mai sentito, un uomo che va a letto con un uomo e che è geloso di una ragazzina, minorenne e per giunta nemmeno una gran fica. Beh, al diavolo lui, il suo amante e le loro liti del cavolo, ne avevo abbastanza. - Sai cosa penso, che siete matti tutti e due e che in analisi dovreste andarci voi! Se vuoi il numero di telefono di Gabriele fammelo sapere! - Me ne andai furiosa, sconcertata e anche terribilmente nauseata. Potevo accettare che lui fosse quello che era, ma i giochi sadomaso no, quelli erano davvero troppo. Piansi sulla spalla di Barbara, che come sempre ebbe una reazione dura e determinata, dovevo liberarmi di lui, dell’universo perverso nel quale stavo affondando. Mandare al diavolo tutto e ricominciare da zero, magari aveva ragione, visto che era al suo terzo innamoramento e il suo compagno era davvero notevole, sotto tutti gli aspetti. Possibile che io non avevo la forza di lasciarmi andare con qualcuno che fosse normale, sessualmente e psichicamente? Gabriele non sapeva quasi nulla delle mie recenti battaglie interiori, andavo da lui a sfoggiare la mia falsa redenzione, la mia immagine allo specchio ritoccata e truccata di sicurezza. Ma il mare in tempesta strabordava da ogni angolo della mia anima e facevo una fatica immane a contenerlo. Si scioglieva in lacrime sul cuscino, in urla feroci lungo i cortei, in gesti rabbiosi e distruttivi sulle poche cose che mi appartenevano. Non sapevo con chi prendermela e alla fine me la prendevo con me. Mi costringevo a prove assurde, come resistere tre giorni senza mangiare, o studiare quattro ore senza mai staccare gli occhi dal libro. Non serviva altro che a dimostrare a me stessa che potevo fare qualsiasi cosa con la sola forza di volontà e a convincermi che non avrei ceduto più al desiderio di rivedere lui. Ma lui era parte di me, così fuso con ogni mia cellula e con ogni mio pensiero che ero inscindibile dalle sue molecole e dal suo destino, così non facevo che esaurire lentamente la mia esausta forza di volontà, fissando per ore il telefono e ripetendo che non dovevo chiamarlo, che piuttosto sarei morta. Gabriele finì per affrontare la questione sotto l’aspetto medico, ero dimagrita troppo, ero al limite della denutrizione, se non smettevo di annientarmi mi avrebbe fatta ricoverare in ospedale. - Parlo con tuo padre... - - Se lo fai non mi vedi più! - - Insomma, devi smetterla con questo gioco distruttivo. Se non separi la tua esistenza dalla sua, e subito... intendo adesso, dovrò intervenire. Non posso permetterti di fare a pezzi la tua vita in questo modo. - - Ma che ne sai della mia vita! Che ne sai di come vivo io... sempre sola, sempre in casa a guardare il muro! Barbara che non fa che dirmi come sono sbagliata e come sono triste e noiosa! Ho voglia di stare con lui! Solo con lui! E anche tu non fai che ripetermi che sto sbagliando. E ti odio... perché mi fai sentire in colpa e mi critichi sempre e non ti sta mai bene quello che faccio e che penso... - leggero, adesso il mio cuore era leggero, avevo urlato, avevo tirato fuori tutta la rabbia e la frustrazione e quella sensazione di leggerezza era bellissima, anche se piangevo. - Brava ragazzina. Così si fa! Così. - mi sorrideva felice della mia resa, o forse era felice perché lo scrigno si era aperto di nuovo e di nuovo lo lasciavo entrare dentro di me, come in un amplesso, come se potesse possedere fisicamente la mia anima. Gabriele era la salvezza, lo era da sempre, lo era stato per tanto tempo e io lo avevo escluso, lo avevo allontanato da me. - Non ci vengo più qui. Non ci torno da te... - tirai su col naso, ingoiando le lacrime e lui scosse la testa, sorridendo. - Dunque il transfert è superato, ora sei in guerra con me. Non mi avevi mai mandato al diavolo con tanta convinzione. Sei sulla buona strada, ma non sei ancora arrivata al traguardo. Se hai bisogno di pensarci su... stabiliamo un appuntamento fra tre settimane, e non mancare. Me lo devi. - Gli dovevo molto di più e promisi di esserci, a quell’appuntamento, anche se ero convinta che non servisse a nulla e che avremmo fatto meglio a salutarci subito e per sempre. Avevo deciso che avrei alzato la cornetta di quel telefono, che avrei formato il numero del negozio e che avrei detto a Franco: - Ciao, ho voglia di vederti. Ho voglia di parlarti. Non me ne frega niente se fai giochi sadici con il tuo amante, con me c’è di più, con me c’è qualcosa che non ci sarà mai con nessun altro, perché nessuno è speciale come me. - Avevo imparato una tecnica semplice, ma efficace per superare le mie difficoltà, convincermi che comunque fare qualcosa era sempre meglio che non fare nulla. Era una delle basi della terapia di Gabriele, scuotere comunque l’anima dall’inedia, qualsiasi fosse il prezzo da pagare o il risultato ottenuto. Il risultato che ottenni fu catastrofico. Non faceva più troppo caldo, stava per ricominciare la scuola e la depressione mi aveva fatto abbandonare i buoni propositi di migliorarmi per lui. Di nuovo avevo indossato la divisa, tuta da meccanico blu sbiadito e una maglietta che aveva subìto troppe centrifughe, scarpe da ginnastica, nemmeno la borsa a tracolla. Le sigarette, i documenti e la tessera intera rete stavano comodamente nelle tasche a cerniera, studiai il mio aspetto dentro la vetrina prima di entrare nel suo negozio e il mio io ferito e imbronciato sussurrò: - Contro ogni tentazione... - E così mi sentivo, di nuovo insignificante, brutta, inadeguata. Lui sollevò lo sguardo e mi squadrò, non esprimeva disgusto o orrore, la sua bella faccia d’angelo, piuttosto pena, commiserazione. Disse un ciao che aveva il ritmo e l’intensità dell’ultimo respiro di un moribondo, poi si mise le mani tra i capelli, tenendosi la testa come se stesse per scappargli via. - Che ti è successo? - chiese e io passai la mano sui tessuti soffici appesi agli attaccapanni di alluminio, senza rispondere. - Che fine hai fatto? Hai l’aria di una che ha fatto una dieta punti e una sniffata di coca. Laura... vuoi rispondere? - Non volevo rispondere, non volevo dargli nessuna spiegazione, ma dovevo pur dire qualcosa. - Non sono stata bene. Tutto qui... e tu? - - Non sono stato bene nemmeno io. Te ne sei andata via e sei sparita, e io non ho nemmeno il tuo numero di telefono. - - Ma sai dove abito e dove vado a scuola. - - Beh, con il negozio e tutti gli impegni di lavoro che ho... - - Immagino. Sei sempre troppo occupato, ma questo è un bene. Le avessi io tante cose da fare. In realtà io non faccio niente dalla mattina alla sera, a parte occuparmi della mia famiglia e della casa. Lava, stira, pulisci e metti in ordine. Ma adesso ricomincia la scuola e almeno avrò delle mattinate piene, rivedrò gli amici, le compagne e i compagni e faremo riunioni di collettivo e assemblee. Faremo delle cose interessanti quest’anno, cose grandiose... - Parlavo e non sapevo nemmeno quello che dicevo, ma il male affiorava e diventava bene, come con Gabriele, come quando con lui tiravo fuori la parte di me brutta e cattiva, odiosa, spaventata, arrabbiata. - Vieni qui. - non lo ascoltai, non volevo andargli vicino, la chimica ormonale aveva ormai preso il sopravvento, mi bruciava la carne come un rogo dell’inquisizione, e io sentivo la mia anima farsi da parte, in un cantuccio oscuro del mio cuore, lasciando il campo a tutte quelle orribili fantasie che mia madre avrebbe identificato con l’opera del demonio. - Non vuoi abbracciarmi? - certo che lo volevo, e volevo anche fare di più, ma se cedevo alla sua tenerezza non avrei saputo tenergli testa, così mi misi seduta sul bancone, a distanza di sicurezza e dissi, senza guardarlo: - No, non ho nessuna voglia di abbracciarti. - - Stai cercando di punirmi? Ho fatto qualcosa di sbagliato? - - Tu sei tutto sbagliato. Sei la cosa più sbagliata che mi sia mai capitata. Sei persino peggio di Claudio... sei devastante. - Avevo usato le parole di Gabriele, aveva definito così il rapporto tra me e Franco, devastante. Perché io mi ci ero buttata dentro, perché non volevo uscirne, e perché stimolava il mio istinto di morte. Eros e Tanatos sono in eterna lotta dentro la psiche degli esseri umani, in me stava vincendo il principe degli inferi, anche se la mia resa passava attraverso il dio dell’amore. - Tu sapevi che ero così, se vuoi farmi sentire in colpa perché sono frocio... - - Fanculo! Non ce l’ho con te per questo! - - Perché allora? Che ti ho fatto? - la sua voce s’era fatta acuta, con una vena di isterismo. - Potresti risparmiarmi la tortura di certi particolari... - - Eh no! Eh no, mia cara! Sei tu che vuoi sapere, sei tu che fai un sacco di domande. Sei tu che sei curiosa come una scimmia! - Era vero, ero curiosa, per curiosità avevo fatto entrare Claudio in casa, per curiosità avevo fumato la prima sigaretta, per curiosità avevo partecipato alla prima manifestazione, per curiosità avevo toccato Barbara, per curiosità la prima canna e la prima anfetamina, per curiosità l’amore per lui. Era solo la curiosità a farmi fare cose stupide, e forse la disperata ricerca di qualcosa che annientasse quel senso di disagio, di inadeguatezza, di inferiorità che mi portavo dentro. “Io ho fatto” perché nel fare era l’essere, ho fatto questo e ho fatto quello, esperienze, cose da raccontare, ciondoli per agghindare un’immagine di sé che altrimenti è niente, assenza, trasparenza, inesistenza. Sezionando la mia vita, i gesti, le parole, potevo dire con la saggezza di Gabriele “sono perché ho fatto”. Ma non avevo fatto ancora abbastanza e il fare doveva significare qualcosa, lasciare qualcosa di edificante, qualcosa che facesse dire a tutti: “Lei era meravigliosa, era speciale.” Non erano pensieri razionali, erano fulmini che lampeggiavano per un istante nella mia mente e in quel momento erano tutti concentrati su di lui. Volevo che lui sapesse cosa stava perdendo, volevo che si rendesse conto che io ero la sua sola salvezza, che il mio amore era la sola cosa che poteva dare un senso alla sua vita. L’adolescenza si stacca lentamente dall’infanzia, trascina con sé per lungo tempo un fardello delicato e innocente di speranze, di convinzioni, di miracoli piccoli e grandi, di audacia e di inconsapevolezza. A volte diventa un guscio e da quel guscio non volevo venire fuori, crescere significa perdersi, rinnegarsi, annullarsi e io non volevo essere adulta, adulta come mio padre, come mia madre, come i miei zii, come i miei professori o come i fratelli di Barbara. Gli adulti erano tristi, aridi, disperati, e io volevo, con tutte le mie forze, con tutta la mia anima, una felicità e una gioia di vivere che sembravano possibili e realizzabili solo nell’infanzia. - Una scimmia non piange, una scimmia non soffre... - sussurrai, e applicai una delle regole della terapia, mai mentire su ciò che senti, mai nascondere gli stati d’animo, per quanto negativi sono, scaricavo su Gabriele la mia negatività, ma Franco non era uno psicologo, non sapeva neppure cosa fosse la psicologia e reagì con la furia di un bambino schiaffeggiato ingiustamente. - Non ti ho chiesto di amarmi! Non ho fatto niente per farmi amare da te! Al contrario, ho cercato di spiegarti perché non volevo che ci fosse troppa intimità tra noi, ma tu no! No! Dovevi fare di testa tua, e le coccole va bene, e va bene anche starsene abbracciati ad ascoltare musica, e poi i baci sulle labbra e le carezze. E adesso mi dici che ti faccio soffrire perché quando mi chiedi come fotto con Michele, io te lo racconto! - - Fai schifo, lo sai? Mi fai schifo quando parli così! - - Dio ti ringrazio! L’hai detto! Adesso puoi valutare questo schifo e decidere se vale ancora la pena di essere amici o se dal momento che il disgusto è più forte di tutto il resto... imboccherai la porta e sparirai dalla mia vita! - - E’ questo che vuoi? - imprecò, con una rabbia e una disperazione che non gli appartenevano, imprecò e mi voltò le spalle. - Forse è la cosa migliore. Forse è meglio se te ne vai... io lo so che stai male per colpa mia, ma Dio sa se vorrei poterlo evitare. Io ti voglio bene... - - No, tu vuoi bene solo a te stesso. E poi... non è una novità, non c’è un cane, per quanto randagio e pulcioso, che potrebbe volermi bene. Ma non ha importanza, io sono come sono e non voglio cambiare. Cattiva o buona... sono così. Non ti cercherò più. - saltai giù dal bancone, ma lui fu più svelto di me, mi prese per un braccio e mi trattenne. - Nessuno ti vuole bene? - mi chiese come se avessi affermato di venire da Marte e io gettai la testa indietro e lo sfidai con gli occhi, un gesto calcolato, che lo impressionasse, e poi dissi, con l’intenzione di sembrare come non ero, forte e determinata: - L’amore vuole sempre una prova, vuole che si dimostri di meritarlo. E io sono stufa di cercare di piacere agli altri e continuo a chiedermi che cosa accidenti devo fare perché la gente mi consideri una persona! Quando otterrò il diritto di essere amata per quello che sono? - Mi liberai della sua stretta e scappai via. Lungo la strada la rabbia mi faceva accelerare il passo e i battiti del cuore, e stringevo i pugni con tutta la forza che avevo, lo odiavo con una determinazione che superava il dolore, e lo amavo con un’impotenza che non aveva paragoni, tranne forse che con la paura. La mia paura, era di nuovo lì a farsi gioco di due anni di analisi e di tante riflessioni, di tanti esperimenti, di tante prove superate, quella paura faceva in pezzi tutto. Era paura di non farcela, di non sopportarmi, di non amarmi e di non essere amata. Devastante voleva dire questo. Molti adolescenti vivono la loro personalità in modo negativo, le esperienze fanno il resto, se ne hai di buone migliori te stesso, se ne hai di cattive a volte... beh, a volte decidi che non ne vale la pena. In fondo stavo in bilico da un pezzo tra il voler vivere e il voler morire, mio padre aveva uno strano modo di amarmi, per cui non sapevo affatto se mi amava. Non avevo la stima di nessuno, anzi, mio zio mi aveva chiaramente detto che non mi stimava, dal momento che mi ero fatta bocciare a scuola e in famiglia ero una specie di pecora nera, nessuno dei miei parenti mi aveva mai dimostrato amore o comprensione, al contrario, mi disprezzavano. Dei miei insegnanti potevo pensare solo che avessero a cuore più la mia presenza in classe che il mio rendimento, o le mie capacità. Gli amici, o meglio, la mia sola amica, era un po' troppo critica con me per considerarla un appoggio. Franco, lui era entrato nel mio guscio, per un momento, solo per un momento e poi tutto era diventato orribile. Gabriele si sforzava di capirmi, ma... era pur sempre solo un dottore. Il resto era indifferenza. Cosa perdevo? Proprio niente. E allora se ne sarebbero pentiti, tutti. Erano loro che perdevano qualcosa. Il valore della propria vita lo fanno gli altri, in quel momento ero consapevole di questo, io non valevo nulla per gli altri, ero niente, e allora esistere non aveva senso. Aprii un quaderno e scrissi quello che sentivo. Scrissi tutta la notte, una specie di testamento, qualcosa che servisse a punire chi mi aveva ferita, e il mattino dopo avevo gli occhi gonfi e l’anima insensibile. Finsi di uscire per andare a scuola, ma appena vidi mio padre allontanarsi in macchina, tornai in casa. Aprii l’armadietto dei medicinali e cercai qualcosa, qualunque cosa potesse mettere fine alla mia esistenza. I flaconi erano tutti innocui. Pensai di tagliarmi le vene, di riempire la vasca d’acqua calda e di sangue, ma pensai a mio fratello e allo spettacolo orrendo che si sarebbe trovato davanti, aveva solo undici anni, l’idea di causargli un trauma indelebile mi fece paura. Odiavo tutti, ma non fino a quel punto, e forse non mio fratello. Era solo un bambino e io provavo da sempre per lui un amore geloso e autoritario, più simile a quello di una madre che di una sorella, protettivo, ma anche terribilmente egoista. In quel momento provai un feroce rimpianto, quel muto affetto fraterno rappresentava alla massima potenza la mia incapacità di farmi amare e di esprimere il mio bisogno di essere amata. Neanche potevo gettarmi dalla finestra, abitavo al piano terra e salire fino alla terrazza mi parve un’impresa impossibile. Ma potevo aprire il gas. Rischiare di far saltare in aria l’intera palazzina non mi faceva sentire in colpa, in fondo ce l’avevo con tutti gli inquilini, specie con la signora del primo piano, la zia di Claudio. Bella vendetta. Chiusi la porta della cucina e le finestre, aprii il gas di tutti i fornelli e del forno, una morte dolce, ti addormenti e non ti svegli più. Era quello che volevo. Mi misi seduta per terra, vicino al forno, inspirando forte l’odore acre e penetrante del gas, mi diede un senso di soffocamento, nausea allo stomaco, ma era solo per poco. Il sonno sarebbe arrivato subito e poi non avrei sentito più niente. Le nove, avevo ancora quattro ore e mezza prima che qualcuno tornasse a casa, tanto tempo per pensare, troppo. E pensai a lui, ai suoi occhi grigi e alle sue labbra, ai suoi capelli d’oro, al suo viso d’angelo e mi venne da piangere. Avrei voluto spiegargli che la sola cosa che mi teneva in vita era il suo amore, se lui non mi amava io non avevo più nessuna ragione, nessun motivo per restare aggrappata alla vita. Ti voglio bene, ma cosa significa davvero amare qualcuno? Per me voleva dire non avere più un pensiero, un gesto, una sensazione estranee a lui, voleva dire respirare il suo respiro, immaginare la sua presenza, avvertire il suo odore e il suono della sua voce anche quando non c’era. Voleva dire trascorrere la vita priva di lui come se lui ci fosse e restare senza fiato quando lui di colpo appariva, tremare dentro e fuori se solo mi sfiorava e sentirmi felice in modo assoluto, totale, al limite della follia, se mi baciava sulle labbra. Non avrei voluto di più, non gli avrei chiesto di più, ma non sembrava che avesse capito, al contrario, a volte credevo di percepire nelle sue parole una specie di crudeltà, come se volesse farmi male, sbattermi in faccia quanto poco avesse importanza quello che provavo per lui, quanto poco se ne curava. Dopo neanche mezz’ora singhiozzavo e tossivo, soffocata dal gas e dal rancore, ero così stupida da credere che a lui importasse di me? Che avrebbe pianto per la mia morte? Desiderai essere già morta e poter vedere tutte le persone che non mi amavano passare davanti al mio cadavere, e poter urlare loro quanto erano false le loro lacrime, e quanto sarebbe stato meglio pensarci prima, quando ero viva e avevo voglia di vivere, quando avrebbero dovuto capire il bisogno d’amore che mi faceva a pezzi e che nessuno sembrava voler soddisfare. Il rancore faceva parte della paura, erano una miscela inscindibile, una polvere infiammabile che mi cospargeva l’anima e che permeava ogni mio pensiero, paura e rancore per chi non mi amava, per chi mi faceva del male. Rendere il male ricevuto, far soffrire chi ti ha fatto soffrire, sete di giustizia, anche di vendetta, non riuscivo a percepire lo strappo nella capacità di ragionare, non avevo nessun equilibrio emotivo in quel momento e nessun freno morale. Avrei incendiato il mondo. Se fossi fuoco arderei il mondo, se fossi acqua io l’affogherei, se fossi vento lo tempesterei, se fossi Dio... e il senso di potenza che si prova nel distruggere, sia pure sé stessi, è tale da sembrare quasi divino. Ma l’odore del gas era diventato insopportabile, così forte e soffocante, e la stanza era piena di un denso, orribile pulviscolo maleodorante. Mi stesi per impedire ai miei muscoli di obbedire al primordiale e irriducibile istinto di sopravvivenza, le dieci e il sonno non era ancora arrivato. L’idea di morire senza accorgermene mi parve irrealizzabile, stavo soffocando con una consapevolezza intollerabile, mi lacrimavano gli occhi e mi bruciava la gola e tutto il mio corpo reagiva forsennatamente a quello stato di malessere. Lo stomaco si contorceva e nelle orecchie il sangue pulsava rabbiosamente, sentivo freddo e la pelle, coperta di brividi, si ribellava al tentativo dei muscoli di rilassarsi. Continuai ad impedirmi di muovermi, tenendo gli occhi chiusi e tossendo con il petto compresso dalle braccia, dentro di me c’erano lampi luminosi e immagini della mia infanzia, voci, colori e suoni, come in un film al rallentatore. La prima comunione, il cortile della scuola pieno di bambini, una lite con una compagna che aveva offeso mio fratello, Barbara che si tagliava le trecce, e mia madre in vestaglia che preparava la colazione. E poi c’era un suono, una specie di mormorio di fondo, come una conversazione tra demoni, che scommettevano sui risultati della fuga di gas. La voce divenne distinta e le parole erano quelle avevo creduto pronunciate dai demoni, fuga di gas, c’è una fuga di gas. Veniva dal cortile del palazzo, quello sul quale dava la finestra della cucina, l’odore era uscito fuori, era in strada. E fu come se tutto il vicinato sapesse che io ero dentro a quella cucina, a morire asfissiata, e a tentare una strage. Ebbi paura, una paura diversa da quella che conoscevo, paura razionale, cosciente, potevo fare del male a qualcun altro oltre che a me stessa, uccidere non era nelle mie intenzioni, e un allarme improvviso mi scosse, mi costrinse ad arrancare con le dita sulla pietra gelida del lavandino, ad aggrapparmi ad esso e a sollevarmi. Non respiravo quasi più, e non vedevo, avevo gli occhi pieni di lacrime e i muscoli rigidi e senza forze. Mi trascinai alla porta della cucina, la aprii e raggiunsi il pannello elettrico, se abbassavo la leva e toglievo la corrente sarebbe saltato tutto in aria? Era quello che volevo impedire che accadesse, che qualcuno suonasse al campanello e innescasse quella scintilla che avrebbe provocato la strage. Con il dito rigido come un artiglio di mummia abbassai l’interruttore, aspettandomi un boato, ma non accadde e nessuno suonò alla porta. Tornai sui miei passi e spalancai le finestre, chiusi il gas e vomitai nel lavandino. Poi, respirando a fatica mi trascinai nella mia camera, non era stato come immaginavo, la testa mi scoppiava, avevo il respiro corto e un bruciore feroce alla gola e ai polmoni, ma il dolore più intenso era dentro, giù in fondo all’anima. Non ero capace neppure di morire. Faticavo a respirare, il fiato andava su e giù con un sibilo da macchina a vapore, la compressione dei polmoni era diventata dolore, la gola era arroventata e le pulsazioni dovevano avere un ritmo da sincope, perché avevo le mani gonfie e le orecchie che ronzavano. Aria, dovevo respirare aria. Aprii i vetri della finestra, inspirai ossigeno, per diversi minuti sentii l’odore dell’asfalto nelle narici e il sapore del gas tra lingua e palato. Latte, il latte disintossica. Ne versai tre bicchieri e li mandai giù, l’odore di gas si stava diradando, attraverso le serrande chiuse filtrava l’aria esterna e il puzzo nauseante di morte si diluiva. Papà non se ne sarebbe accorto, e spalancai tutte le finestre di casa, poi vomitai di nuovo. Mi stesi sul mio letto e accesi una sigaretta, se avessi aspirato acido muriatico avrei sentito meno dolore, i miei polmoni non tolleravano altro che aria ossigenata. Gabriele mi parlò dal profondo di quell’inconscio che cercava di far guarire e mormorò: - Così non va, ragazzina. Non è una soluzione. Lo sapevi che non sarebbe stata una soluzione. Ci vuole coraggio per vivere, ma ce ne vuole anche per morire. - - Allora aiutami tu! - sussurrai alla stanza vuota - Aiutami a farla finita! - Non era quello che potevo aspettarmi da lui, ma glielo chiedevo lo stesso, perché in fondo era la sola cosa che volevo veramente, la sola della quale ero sicura. Piansi per la sconfitta, per quella incapacità di vivere e di morire che sembrava invincibile, e per il bisogno che avevo degli altri. Gli telefonai. - Come stai? - - Sto male. - - Dove sei? - - A casa. - - Vuoi venire da me? - - Non credo di farcela. - - E’ successo qualcosa? - - Sì. Ero così vicina... così vicina alla soluzione.... ho freddo e mi fa male la testa. Ho bevuto il latte e ho aperto le finestre, ma non mi sento meglio... non posso respirare e ho vomitato anche l’anima. Fai presto... credo che vogliano chiamare i pompieri... - - Tuo padre dov’è? - - Che te ne frega di mio padre! E a lavorare... - - Cosa hai fatto? - - Gabriele... mi dispiace! Mi dispiace tanto... - - Non muoverti di lì, resta dove sei, stenditi sul letto e resta dove sei. Arrivo subito. - Non suonò il campanello, batté tre colpi rabbiosi contro la porta e io mi trascinai ad aprirgli. Non disse una parola, mi mise un braccio intorno ai fianchi e mi trascinò fino al letto. Mi visitò, mi guardò la gola, mi ascoltò il cuore e mi misurò la pressione. - Dovrei portarti in ospedale. Quanto tempo hai respirato gas? - - Non lo so... un’ora forse di più. - - Hai il battito e la pressione alterati, e respiri a fatica. Ma se ti porto in ospedale dovrò denunciare il tentato suicidio. Lo sai che è un reato? - - Cercare di ammazzarsi è un reato? Che cazzo... - - Ehi, non sono disposto ad ascoltare proteste. Hai superato il segno, chiaro? Ne ho abbastanza della tua intemperanza, della tua stupidità. Dovevi chiamarmi prima di farlo, non dopo. - - Non dirlo a papà... - - Devo, sei minorenne. - - Ti prego! - - Mi prendo una grossa responsabilità, se lo tengo per me. Lo faccio solo se mi fai una promessa, ma devi mantenerla. - - Faccio tutto quello che vuoi, ma non dirgli niente. - - Va bene, ma se non mantieni la promessa questa volta non la passi liscia. Voglio che tu riprenda la terapia e subito, da domani. E non azzardarti mai più a fare una sciocchezza come quella di oggi. Hai ottenuto un solo risultato, stare peggio di prima. - - Non riesco nemmeno a morire... - scoppiai a piangere e lui mi abbracciò stretta, tutto svanì, persi i sensi e scivolai in un cupo stordimento. * * * Non disse nulla a nessuno dell’accaduto e io mantenni la promessa, ripresi la terapia, anche se buona parte del suo tempo andava sprecata in lunghi silenzi. Faticavo a ristabilire quello che lui chiamava transfert, con un termine tecnico che voleva dire solo “fidati di me e lasciati andare”. C’era una parte di me che non volevo fargli conoscere, una parte che volevo tenere nascosta, ma come si fa a nascondere qualcosa a qualcuno che per mestiere ti tira fuori l’anima? Alla fine ne sapeva più di quanto ne sapessi io stessa. Sapeva cosa mi tormentava e cosa non riuscivo a dire, cosa pensavo e cosa sentivo e anche quello che avrei sentito l’indomani o dopo un anno. Le sedute erano tornate ad essere due a settimana, come all’inizio della cura e peggio che all’inizio della cura, lui era sempre più inquisitorio, e sempre meno disposto a sorvolare su un qualsiasi argomento, anche il più insignificante. Così indagava persino sulle mie idee politiche, sulle ragioni che mi facevano scegliere l’ambiente della sinistra extraparlamentare, piuttosto che un qualsiasi altro fronte o partito politico. Erano misteri da sondare il mio femminismo, il mio interesse per i problemi delle donne, la smania di conoscere e di capire la mia anatomia. Allora non ero lucida nelle scelte, né in quelle esistenziali né in quelle ideologiche, veniva tutto da dentro, da una specie di pulsione istintiva e senza contorni, che mi faceva muovere in una direzione della quale non vedevo il fine, ma percepivo la giustezza. - Giusto è una parola che può avere tanti significati. Giusto in base a cosa? Alla legge, alla religione, alla morale? - - Io non credo a nessuno di questi valori, legge, religione e morale, non li ho inventati io, non sono miei. Li hanno fatti altri. - - E il tuo senso del giusto da dove viene? - - Dall’esperienza, so quello che è giusto perché so quello che è sbagliato. Non so spiegartelo. Se faccio una cosa so se è bene o è male... - - Dalla legge, dalla religione e dalla morale. Forse non te ne rendi conto, credi di combattere queste cose, di opporti alle regole, in realtà le stai solo trasformando, rileggendo a modo tuo. La legge dice che uccidere è un reato, tu non uccideresti mai, ma in piazza urli “morte ai padroni” e dentro di te sei convinta che vorresti davvero vederli morti. La ragione per la quale ritieni che sia giusto è che la tua morale, quella stessa che rifiuti, ti ha insegnato che il povero è una vittima, il ricco un colpevole. E’ più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago... ti dice nulla questa frase? Gesù Cristo è il primo comunista della storia e tu sei intrisa di cattolicesimo, come tutti noi. Allora dov’è la novità? Dov’è la rivoluzione? Tu parti da ciò che sai per giungere a ciò che sei, ma la strada giusta è all’inverso. Devi partire da te e cercare di raggiungere l’obiettivo, qual è l’obiettivo della tua vita? - Non ci avevo capito molto, ma la mia mente elaborò un solo pensiero, che non espressi. L’obiettivo della mia vita era portare a letto Franco. - Io non so cosa sono, ma so quello che vorrei essere. - - E cosa vorresti essere? - - Una persona forte, determinata, senza timori, senza debolezze. Una che può fare a meno degli altri, che non si fa coinvolgere, che non si lascia condizionare. Una persona che sa cosa vuole e lo ottiene senza dover accettare compromessi. - - Un super io senza limiti. La modestia è l’ultima delle tue virtù. - - Non credo che tu abbia capito... - - Ho capito benissimo, e va bene così. Dobbiamo costruire su questo, allora. Si può fare, tutto si può fare, ma devi andare fino in fondo. - Gabriele non giocò più a carte scoperte con me, mi tendeva tranelli invisibili, talmente astuti che non ero in grado di evitarli. Nell’ultimo periodo della terapia eravamo arrivati alle domande dirette, chiare ed esplicite, che esigevano risposte altrettanto schiette. Aveva abbandonato la tecnica interpretativa, quella che usava i primi tempi, quando mi chiedeva di parlargli delle mia bambola preferita, o dei miei sogni ricorrenti. Dalle risposte che allora io ritenevo innocenti quanto le domande, lui ricavava il quadro della mia personalità, ma era un tranello, un complicato sistema di accesso ad un universo che io tenevo celato, e che lui sapeva che spontaneamente non avrei rivelato mai. - Un bosco non è un bosco se non ci sono alberi, arbusti e muschio. Una donna non è una donna se non ha confidenza con il suo sesso. Ti specchi mai completamente nuda? - - No. - - Perché? - - Perché non ho uno specchio abbastanza grande! - dissi ridendo. - E se lo avessi? Lo faresti? - ero a disagio, avvertivo che le sue domande erano strane e che c’era un fine misterioso dietro alla loro apparente innocenza, ma risposi che mi sarei specchiata, sì. - Credi di avere un corpo gradevole? - - Non lo so. Sono magra, sono bassa... - - Gradevole o no? - quando le domande presupponevano un sì o un no voleva dire che lui aveva uno schema preciso da seguire. - No. - dissi risentita e anche un po' intimorita dal suo tono deciso. - Se qualcuno ti dicesse che puoi cambiare parte del tuo corpo, cosa cambieresti? - la trappola era tesa, lo avvertii, ma mi lasciai catturare, forse perché, in fondo al mio inconscio, volevo che si facesse largo ancora dentro di me, come un esploratore, come un profanatore di tombe, e che tirasse fuori il mistero. - Cambierei sesso, chiederei di diventare un uomo. - sorrise e scosse la testa. - Un uomo non può essere sottomesso, non può essere violato, non può essere oltraggiato? - - Io... non credo che sia per questo. - - Perché allora? Mito del maschio? Invidia del pene? Complesso di inferiorità? Cosa te lo fa desiderare? - - Semplicemente per gli uomini è più facile... - - Dottrina femminista? D’accordo, per gli uomini è più facile. Trovare lavoro, farsi una posizione, diventare qualcuno, scopare... - Lo aveva detto fissandomi negli occhi, non aveva mai usato termini così crudi con me, si piegò in avanti, chinandosi sulla mia faccia e ripeté: - Scopare come un uomo. Fottere una femmina e farle sentire quanto sei forte. Lo hai mai immaginato? - - Di scopare una donna? - chiesi io con un sussurrò, ero spaventata ed era lui che mi faceva paura. - Sei diventato scemo? No, non me lo sogno nemmeno. Che cazzo di domande sono, queste? - - E che tipo di uomo vorresti essere? Dimmi un uomo che ti piace, un attore o un cantante, un corpo ideale che ti piacerebbe indossare per un giorno. - Non mi veniva in mente nessuno, i miei uomini ideali erano molto diversi tra loro. Avevo una cotta per Dustin Hoffman, mi piaceva Paul Newman, e mi eccitava veder cantare e ballare Mick Jagger, ma di qui a decidere quale corpo avrei voluto scegliermi per un giorno, ci passava. - Nessuno che ti piacerebbe essere? - Mi accorsi che aveva trovato la strada, e non era cosciente, era solo percettiva, la sensazione che stesse sondando molto, molto oltre i miei gusti in fatto di uomini. - Vorrei essere un ragazzo... non troppo muscoloso, non troppo robusto, nemmeno troppo alto. Atletico sì, e con una bella faccia, con una di quelle facce che piacciono alle ragazze, con gli occhi chiari e delle belle labbra. E vorrei saper fare qualcosa di affascinante, come recitare, o suonare la chitarra. E poi... poi vorrei essere dolce e forte, allo stesso tempo, e anche romantico. Insomma... - - Insomma vorresti essere l’uomo che non riesci a desiderare, l’uomo che sei convinta che non esista, e siccome non c’è, credi di poter diventare tu ciò che vorresti da un uomo. E adesso dimmi una cosa, pensi che l’uomo che ami si innamorerebbe di te, se tu riuscissi ad essere come ti sei descritta? - Eccolo il mistero, ecco spiegato tutto il caos di emozioni, desideri, frustrazioni che avevo dentro. Ed era così chiaro che mi persi, annaspai, affogai. - Aiutami... - - A diventare un uomo? L’uomo che credi che lui voglia? - - A diventare qualsiasi cosa! Qualsiasi cosa... meno quello che sono. Lui non mi vuole così. Devo cambiare... - - Devi smettere di cercare di essere come ti vogliono gli altri. Tu sei, tu hai, tu vuoi. Non quello che piace a lui, non quello che piace a tuo padre, a tuo fratello, ai tuoi amici. Tu devi, mi senti bene, devi essere quello che senti! - - Io sento... Oh Dio! Sento solo che se non lo rivedo presto divento matta! Che ho bisogno di lui, che non riesco a vivere senza di lui! - - Per questo volevi morire? E’ per questo che vuoi morire? - alzava la voce di rado, ma sembrò non potersi trattenere e io urlai ancora più forte. - Non dare la colpa a lui! Sono io... io che mi odio! Mi faccio schifo! Non mi piaccio, capisci? Non mi piace la mia faccia, il mio corpo, la mia anima... - - Il tuo sesso! - - Potessi tagliarmelo via con un coltello... - - Dolore. Rabbia. Vergogna. Cosa vuoi tagliare via? - - Quel buco! - mi afferrò per le spalle e mi strinse, mentre i singhiozzi mi schizzavano fuori violenti, pieni di rabbia, e di colpo la sua voce divenne calma. - Lo so, quel buco, lo so. Non è altro che un orribile apertura che entra nella tua anima, e attraverso quel buco qualcuno è riuscito a ferirti così a fondo che non riesci a guarire. Devi perdonarti. - - Per cosa? - - Per il male che credi di aver fatto. Per la colpa di essere una donna. Puoi diventare abbastanza forte da impedire che ti raggiungano ancora così profondamente, ma non sarai mai invulnerabile. Nessuno di noi lo è, uomo o donna che sia, ogni essere umano ha le sue debolezze. Ora asciugati gli occhi, la seduta è finita, ma voglio che tu ci pensi bene. Posso darti gli strumenti per ottenere da te stessa e partendo da te stessa, quella forza che chiedi, ma prima devi accettare la tua debolezza e devi smettere di credere che non c’è nulla di buono in te. - Cosa avessi di buono non lo sapevo davvero, non avevo nessuna prova del bene che c’era in me, l’amore di chiunque mi avrebbe fatto sperare, ma nessuno mi amava. Neppure chi amavo con tutte le mie forze. Mi sentivo respingere dal mondo intero, e l’aiuto che Gabriele cercava di darmi mi sembrava inutile. Neppure lui aveva mai detto che mi voleva bene. L’immagine che avevo di me stessa era così negativa che non riuscivo a trovarci proprio niente di buono. Non mi sentivo bene nemmeno in mezzo ai compagni di scuola, o a quelli di fede politica, ero sempre ai margini, seguivo l’onda di altri, più forti di me, più decisi di me. Alle manifestazioni non venivo mai scelta per portare lo striscione, ai volantinaggi mi mettevano sempre davanti al cancello della scuola e mai lungo la strada, non mi chiedevano mai di vendere il giornale, né di affiggere manifesti, insomma non avevo nessun ruolo specifico, ero “massa”, una fra tanti, come dire nessuno. In classe ero quella che faceva meno fatica nelle interrogazioni, ero allenata a parlare, ma nei compiti in classe ero una catastrofe, anche perché ero incapace di copiare. Nessuno dei miei insegnanti avrebbe scommesso su di me, ero un cavallo che mollava troppo spesso, sulla dirittura d’arrivo. Se poi guardavo l’aspetto familiare, quello era davvero al limite del tragico. Mio padre era sempre stato taciturno e non mi aveva mai rivolto una parola di approvazione. Mio fratello era troppo piccolo per farci conto, e sembrava avere una sola aspirazione, farsi i fatti suoi. I miei parenti erano quanto di più critico potessi desiderare per misurare la mia autostima. Da quando mia madre era morta avevano fatto fronte comune nel considerarmi colpevole non so bene se della sua malattia, della sua morte, o della sua vita troppo breve e infelice. Ero una figlia insensibile, egoista, maleducata e senza amor proprio, non sapevo conquistarmi la fiducia e l’affetto della famiglia e non mi comportavo come una buona orfana. Cos’è una buona orfana? Una che somigli il più possibile a quelle caricature umane illustrate dal miglior manuale di autolesionismo mai scritto, quello che ad onore dei valori morali che conteneva fu intitolato “Cuore”. La buona orfana sacrifica la sua intera esistenza per il bene del vecchio padre, dei vecchi zii, del giovane fratello. Beh, io non ero disposta a lasciarmi plagiare da quelle edificanti immagini di eroi e non avevo nessuna voglia di sacrificare la mia esistenza per nessuno. Ma questo voleva dire non ottenere l’amore degli altri. Per quale ragione si debba fare in pezzi la propria esistenza, la propria personalità, le proprie aspirazioni, per ottenere l’amore degli altri, non lo capivo allora e non lo capisco ora. Ma a sedici anni tu sei ciò che gli altri pensano di te e io ero inutile, cattiva, egoista e indegna di vivere. Non lo hanno mai detto, ma credo che i miei amorevoli parenti lo abbiano pensato, perché non ero morta io al posto di mia madre? E devo essere sincera, a volte l’ho pensato anch’io. Come se la sua esistenza fosse più preziosa della mia, come se la sua vita fosse determinante per la felicità di troppi, mentre la mia non serviva a nessuno, al contrario, era motivo di sofferenza e di preoccupazione. Gabriele impiegò mesi a farmi tirar fuori quella convinzione, una tra le tante che mi procuravano il disgusto di me. E quando lo dissi mi parve di aver sollevato il coperchio del vaso di Pandora, perché vennero fuori tutto il rancore e la rabbia che covavo. E insieme anche il dolore, una pena intensa e senza confini per quella me stessa che non meritava nulla, che non valva nulla, sofferenza che si tramutò tra le mani di Gabriele in consapevolezza. |