CAPITOLO QUARTO

 

Non vedevo Franco da due mesi, e mi mancava da morire. Lo sognavo e gli parlavo attraverso fiumi di parole scolpite a inchiostro sulle pagine dei miei quaderni, poesie, pensieri e frasi sconnesse, con un solo obiettivo sempre più costante, sempre più pressante, costruirmi un amore che non esisteva, qualcosa per cui vivere. Non era cosciente, né razionale, né utile il transfert che cercavo di stabilire con lui, ma Gabriele non era abbastanza bello, affascinante e forse innocuo, perché concentrassi su di lui il mio bisogno d’amore. Anche questo affiorò durante le sedute e lui parve non esserne affatto deluso, piuttosto si convinse che non era del tutto sbagliato usare la figura di quell’amante impossibile per tirarmi fuori dal mio guscio.

Mi dava consigli pratici, oltre a quelli psicologici, per affrontare quello che lui chiamava  “il nostro lavoro” , e per fare bene  “il nostro lavoro”  dovevamo usare tutte le tecniche possibili. Così la mia  “divisa”  diventò uno strumento di lavoro, o meglio ci lavorammo su. Volevo apparire un po' maschile, dunque i jeans e le camicie militari andavano bene, le scarpe da ginnastica o gli scarponcini con la suola di para facevano al caso mio. Portavo giacconi e pullover da uomo e spuntò persino un  “chiodo”  alla Fonzie, rimediato al mercatino americano. I capelli però non volli tagliarli, li legavo dietro la nuca, in una coda folta e lunga quasi fino ai fianchi, facendoli sparire dentro il maglione o la camicia; erano una specie di trofeo, un riscatto per tutti gli anni della mia infanzia, trascorsi con il taglio alla maschietta. Mi truccavo solo gli occhi, un segno nero nella parte inferiore, che ingrandiva lo sguardo, usavo una sostanza indiana chiamata Kajal. Niente profumo, niente creme e niente gioielli, a parte una catenina d’argento con il segno della pace.

La mia immagine era abbastanza comune, ma mi piaceva, sparivo quel tanto che bastava, apparivo come mi sentivo.

Il bisogno di nascondere la mia femminilità era tale che mi trasformai presto in un ibrido, una via di mezzo tra un ragazzo e una ragazza, indefinibile, a volte addirittura inquietante, molti si confondevano, restavano stupiti scoprendo che ero una femmina. E quello che mi faceva stare meglio era che anche i miei atteggiamenti erano cambiati, non avevo più paura di non piacere, non me ne importava più, e avevo un problema di meno, quindi avevo più coraggio, più sicurezza, quelle virtù che fino a quel momento avevo attribuito solo ai ragazzi.

Fu così che Franco mi rivide dopo quasi quattro mesi che non ci davamo notizie, ad una manifestazione, c’erano i radicali e lui era con il loro gruppo, stava correndo dietro al suo nuovo amore, il segretario della sezione, un tipo carino, con la faccia da ragazzino e un paio di occhiali cerchiati d’oro, da professore universitario, dietro i quali brillavano due occhi azzurri e intelligenti. Lo conoscevo bene quel ragazzo, abitava a tre isolati da casa mia, prendeva lo stesso mio autobus quando tornava a casa dall’università, ci incontravamo alla fermata, io con il mio zaino, lui con la sua borsa di pelle. Non parlava molto, era timido, ma simpatico, dolce nei modi, educato.

Ora sapevo anche che era gay e Franco non immaginava certo che lo conoscessi, così quando ci presentò feci il possibile per fargli capire che io e Federico eravamo grandi amici, per fargli invidia, per fargli rabbia, per fargli capire che lui non era il centro dell’universo e che io esistevo anche senza di lui, ed ero amica del suo nuovo amichetto.

- Sempre vestita allo stesso modo... - commentò lui appena restammo soli.

- E’ il mio modo. Mi piace così. -

- Hai detto che saresti stata fuori dalla mia vita e lo hai fatto davvero. Mi sei mancata, lo sai?. -

- Risparmiati le frasi convenzionali. Comunque... non mi conosci abbastanza. Io faccio poche promesse, ma quando dico una cosa... è quella. -

- Non ho mai avuto dubbi sulla tua determinazione, è la cosa che mi ha colpito di più in te. E non è vero che non ti conosco. So molte di cose di te. -

- Sai solo quello che ti ho raccontato io, e ti ho raccontato molto poco. Che fine a fatto Michele? -

- Lui? Beh, ha detto che andava in Sud America, ma io credo che abbia preso un treno per Reggio Calabria e che sia tornato dai suoi. E’ stata la cosa migliore, per entrambi. -  mi venne da ridere per come lo aveva detto, sembrava Rossella O’Hara doppiata da Bogart in un “Via col vento”  rivisto e corrotto da un inversione assurda di ruoli.

- Quando finisce un amore bisogna trovarne subito un altro, altrimenti si perde l’allenamento. - la mia ironia lo lasciò un attimo sconcertato, ma sapeva come rendermi il colpo mancino.

- E tu? Ti sei trovata un ragazzo o vuoi rimanere una fedele vestale dell’autoerotismo? -

- Autoerotismo? Sei un esperto in materia? Credevo che le tue aspirazioni fossero altre, masochismo sperimentale, mi pare...  -

- Basta con le pugnalate, adesso. Facciamo pace. -  mi tese la mano e io sorrisi, non ero arrabbiata con lui, forse lo ero di più con me, ma l’imbarazzo di incontrarlo di nuovo mi aveva fatto sollevare uno scudo di difesa che diventava aggressività e stupida cattiveria.

- Pace. Ma ora devo andare, i compagni mi aspettano...  -

- Beata te, io non ho nessuno che mi aspetta. -

- E Federico? -

- Oh lui... lui è molto impegnato. Deve correre alla radio, fa la cronaca della manifestazione, e stasera ha una riunione. E’ un ragazzo molto, molto intelligente, uno che farà strada. -

- Vi auguro ogni bene. -

- Avevamo detto pace. Perché sei così spinosa? -

Davvero non lo sapevo perché, ma gli si leggeva negli occhi che aveva di nuovo perso la testa, e questa volta per un cervellone, non per un bieco praticone da stanza delle torture.

Così mi sembrava ancora più difficile che si curasse di me ed ero ancora più risentita e amareggiata.

- Scherzavo. Facciamo un po' di strada insieme. -

Da Piazza Venezia alla prima fermata di autobus che mi facesse comodo dovevamo percorrere un bel pezzo di strada, mi prese sottobraccio.

Era molto più alto di me, e io arrancavo dietro al suo passo, ma con le mie scarpe senza tacco gli stavo dietro e lo guardavo dal basso in alto, senza sentirmi il ranocchio secco e occhialuto, mi sentivo invece leggera come una farfalla e altrettanto deliziosa.

Guardami, pensavo dentro di me, guardami e pensa a cosa potresti fare con questa minuscola e graziosa ragazzina, fatti venire in mente qualcosa di veramente perverso. Fatti venire in mente uno di quei giochetti...

- Allora hai deciso di vestirti da uomo? -

- Per il giaccone di pelle e i jeans? Un sacco di ragazze si vestono così. - 

- Solo quelle bruttine, e tu non lo sei. -

- Non ho bisogno di uno stilista...  -

- E neppure di un amico. Beh... cos’altro potrei offrirti? -

Gli presi la mano e sorrisi, camminavo su una nuvola, come se non avessi più peso, non il peso del corpo, ma quello dell’anima, era stata di pietra, adesso galleggiava come una bolla di sapone. Lui anche sorrise, poi si fermò e si tolse gli occhiali, quelle pupille trasparenti erano ancora dentro la mia mente, non le avevo dimenticate neppure per un attimo, così quando disse:

- Vorrei tanto che tu... non mi portassi rancore. - la parte buona di me affiorò di colpo, incantata dal suo sguardo, e come un serpente, ondeggiai fuori della cesta, attratta dalla magnetica idolatria di lui, tesi i muscoli e mormorai:

- Sai cosa penso? Penso che io e te potremmo essere amici, penso che io e te stiamo bene insieme, e penso che se tu non fossi quello che sei... io forse non proverei quello che provo. Non ti amerei diverso da come sei, e non avrei così voglia di abbracciarti. -

E lui mi abbracciò, mi strinse forte, tra la gente che passeggiava e si voltava a guardare due ragazzi che si tenevano tra le braccia, come due amanti.

Ricucito lo strappo tra di noi, avevo un solo altro obiettivo, convincerlo di quanto lo amavo, di come ero disposta a tutto pur di far parte del suo universo, ero quella che avrebbe voluto vivere senza compromessi, ma questo valeva per il resto del mondo, non per lui.

In quegli anni avevo maturato tante convinzioni, per lo più ideali, la mia adolescenza era passata attraverso una tempesta di fatti clamorosi. L’Irlanda del Nord che entrava in piena guerra civile e l’omicidio Calabresi, il colpo di stato in Cile e il colera a Napoli, la rivolta degli indiani d’America e l’austerity, Arcipelago Gulag e il caso Watergate, la rivoluzione dei garofani rossi e la vittoria del referendum sul divorzio; mi sembrava di aver visto tutto ciò che c’era da vedere, mi sembrava di essere una particella atomica innescata dentro la storia, una storia esplosiva che avrebbe capovolto tutte le leggi e le regole fino allora conosciute. E quella sensazione mi dava una intensa consapevolezza di essere, di esistere, di significare.

Ma soprattutto si era consolidata dentro di me l’idea di poter stravolgere ogni regola, ero convinta che esisteva la possibilità di assumere il dominio della propria esistenza, senza dover più rispondere a leggi di comportamento o di morale. Noi eravamo al di sopra della morale, eravamo esentatati dalla morale, e amare lui era quanto di più trasgressivo potessi immaginare.

Così non mi sembrava mostruoso, né peccaminoso pensare di fare sesso con lui e il suo amante. Un gioco a tre, che assicurava a lui la possibilità di mantenere la sua identità sessuale, e a me quella di far parte del suo universo erotico. Era un vaneggiamento del cuore, una specie di estrema e folle fantasia che metteva la trasgressione al primo posto, ma che nasceva dal profondo bisogno di sentirlo mio, di possederlo in qualche modo, in qualsiasi modo.

Quell’idea mi era affiorata durante una riunione di donne, facevamo spesso quella che chiamavamo autocoscienza, e consisteva nel raccontare in modo critico e costruttivo le proprie esperienze. Molte di noi non ne avevano proprio di esperienze, altre ne avevano qualcuna nemmeno troppo eccezionale, ma c’erano due ragazze che avevano un bagaglio infinito di episodi di vita da narrare. Avevano circa vent’anni ed entrambe battevano il marciapiede, avere delle prostitute all’interno del collettivo femminista non era esattamente lo stile delle donne radicali, né di quelle comuniste, ma il nostro gruppo era molto eterogeneo, accoglieva anche le lesbiche, le ragazze madri, le divorziate, le abortiste. Che ci fossero due prostitute allargava solo la mescolanza di privato che diventava politico. Perché la prostituzione è una piaga, ma è anche un ammortizzatore sociale, serve ad evitare che la liberazione sessuale raggiunga anche i ceti più bassi, il sesso libero lo pratica di certo la borghesia, più o meno benestante, ma non è uno sport per i proletari. Loro fanno sesso per fare bambini, oppure per svoltare una serata senza spendere soldi, e lo fanno prevalentemente in casa, e senza troppa fantasia. Quello con le puttane è il solo sesso trasgressivo che riescano a permettersi, una tantum.

E le due ragazze raccontavano episodi intriganti, eccitanti, a volte al limite del grottesco, che ci coinvolgevano, ci facevano stupire o ridere, ma soprattutto stimolavano la nostra morbosa curiosità. Così quando Marzia, la più giovane di loro, raccontò di aver partecipato ad un rapporto a tre, tutte eravamo estremamente interessate a conoscere i particolari. Disse che erano due uomini e all’inizio non era affatto convinta di salire in macchina con due clienti, aveva un po' paura, ma poi aveva capito che uno dei due doveva essere più donna che uomo, per il suo modo di fare, per quella strana vocina in falsetto con la quale sussurrava all’altro, e anche per il suo abbigliamento stravagante. Alla fine si era lasciata convincere e aveva chiesto una tariffa doppia, che i due avevano subito trovato adeguata. Si erano appartati e lo scambio di effusioni tra i due le aveva fatto credere che non volessero coinvolgerla, invece quello dei due che appariva più virile alla fine aveva preso a toccarla, mentre l’altro cercava di eccitarlo. Poco dopo lei aveva avuto il primo rapporto sessuale con il suo cliente più maschio, ma anche l’altro si era fatto avanti, mentre il suo compagno gli si metteva alle spalle. Marzia disse che mentre quell’uomo che le era parso un po' troppo femminile aveva un rapporto con lei, l’altro lo incitava, e che alla fine lo aveva sodomizzato, mentre lui possedeva lei.

In quel momento l’idea più trasgressiva e immorale che potessi immaginare, riuscire fare sesso con Franco e Federico contemporaneamente, buttando via l’ultimo baluardo di inibizione, mi esplose nella testa come un petardo.


 

* * *

Ma di colpo esplose anche il paese intero, esplose prima a Brescia, con una bomba tra la massa che manifestava, poi in una galleria vicino Bologna, a San Benedetto Val di Sangro. Totale delle vittime: venti morti e oltre centocinquanta feriti. Totale delle perdite: incalcolabile. Milioni di italiani non sapevano più cosa era reale e cosa frutto di un incubo omicida che stava diventando collettivo.

La morte fa parte della vita, la strage è qualcosa di atavico che ha messo radici nell’indole dell’uomo, stragi fatte dalla storia, epidemie, guerre, e il sangue che scorre nelle vene di ognuno di noi è lo stesso che viene versato in nome di Dio o delle idee. Uccidere diventa un modo per affermare sé stessi e le proprie convinzioni, ma al di là di quella che moralmente definiamo colpa, la ragione dei giusti supera la giustizia stessa e si trovano mille buone ragioni per uccidere e non sentirsi in colpa, mille ragioni per fare ingiustizia sotto la bandiera dei giusti.

C’era una canzone in quei tempi che cantavamo seduti sull’erba, davanti ai cancelli della scuola, una canzone che diceva: il mondo sta esplodendo, dall’Angola alla Palestina, l’America Latina sta combattendo, la lotta armata vince in Indocina, in tutto il mondo i popoli acquistano coscienza e nella piazze scendono con la  “giusta”  violenza..... e allora tu cosa aspetti a prendere il fucile.

Io credevo nella pace, ma la rabbia dilagava e io mi sentivo sempre più coinvolta da quella violenza, in un mondo che stava andando in pezzi. La strage sarebbe continuata, sangue e paura avrebbero inzuppato le nostre anime piene di ideali e di sete di giustizia, era un onda anomala che spazzava via ogni cosa, e si doveva stare da una parte o dall’altra, non c’erano vie di mezzo, non esisteva compromesso.

Ero ancora troppo giovane per decidere cosa veramente fosse giusto o sbagliato, ma era inevitabile farsi carico di qualcosa che stava modificando il nostro modo di sentire, e soprattutto andava perduta la convinzione che tutti abbiamo di essere invulnerabili, eterni, inattaccabili.

Sulle piazze si moriva, e si moriva nelle guerriglie urbane, si moriva di bombe e di agguati, li chiamarono anni di piombo, perché le armi erano ad ogni angolo di strada, ma furono di piombo perché ci pesarono addosso come macigni, schiacciando tutto quello in cui avevamo creduto. Eravamo spaventati, disorientati, ci fu strappata via ogni certezza, compresa quella di poter essere protagonisti della nostra vita.

Si usava spesso questa frase, era diventata un idioma buono in ogni occasione, dalle esigenze di ognuno alle necessità di tutti. E l’egoismo, la parte egocentrica e individualista di ognuno di noi sembrava sepolta.

Ci raccontavamo questo, dimenticando che nessuno di noi, assolutamente nessuno, avrebbe diviso parte di ciò che aveva, o parte di ciò che era, con il fratello meno fortunato.

L’ipocrisia è umana quanto l’intelligenza, comune a tutti, come l’uso della parola, e spesso la parola non esprime il pensiero. Gli animali sono più coerenti e generalmente non parlano.

Così c’era qualche altra cosa che dovevo affrontare, oltre al bisogno d’amore, ed era l’incertezza. Rifiutando ogni valore esistente, rinnegando la legge, la morale, la fede, cardini di tante generazioni e stendardi di tante guerre sante, mi ero messa nell’occhio di un ciclone che falciava vite, ideali, promesse e convinzioni. Ero al centro di un furioso tornado, e non avevo altro riparo che i miei sogni, fragili del resto, e così estremi da apparirmi irrealizzabili. E nel profondo dell’anima mi sentivo colpevole, colpevole mio Dio, in pensieri parole ed opere e soprattutto nei desideri. Cosa era giusto?

La morte non è mai fonte di giustizia, la violenza mi faceva orrore, eppure sembrava che i nostri ideali dovessero per forza passare attraverso la morte e la violenza. Sentivo un bisogno estremo di appartenere al futuro e di agire in suo favore, ma avevo anche troppi dubbi e troppe incertezze.

Dai dubbi nasce la conoscenza, la consapevolezza, la saggezza, la sola certezza che governa gli uomini è l’ignoranza, non sappiamo troppe cose e le poche che sappiamo non hanno nessun fondamento certo, tutto può essere confutato, tutto ha il suo opposto, e allora la fatica è doppia, devi prima convincerti di qualcosa e poi riuscire a mantenere quella convinzione, in barba alla scienza empirica o all’evoluzione tecnologica.

Un’immagine di quando ero bambina mi riaffiorò alla mente, una montagna e uno scalatore, e in cima, irraggiungibile, il tetto del cielo, forse Dio stesso.

Punti fermi, avevo bisogno di punti fermi, chiodi nella roccia per poter continuare a scalare la montagna e arrivare in cima. Punti fermi come cardini sui quali poter per un attimo cambiare visuale, posizione, orizzonte, ma ai quali poter tornare in ogni momento, senza rischiare di cadere giù, nel vuoto. Il vuoto si apre intorno all’individuo che non riesce a mantenere il contatto con la sua esistenza, un vuoto fatto di assenze, di mancanze, di bisogni insoddisfatti, addirittura inespressi, il vuoto che fa vuoto dentro, e non resta della propria vita altro che un immensa bolla d’aria che galleggia nell’aria. E il mondo ti gira intorno come se tu fossi trasparente.

Non sapevo più se fare la guerra al mondo e fidarmi del mio istinto o se arrendermi e riprendere le fila della mia vita basandola sui valori che volevo combattere. Ero immorale, ero trasgressiva, ero comunista, ero atea, e poi ero innamorata, ero disperata ed ero infinitamente felice. C’era una tale confusione dentro di me che tutto sembra giusto e forse nulla lo era.

Ne parlai con Gabriele e lui rispose che se ero in guerra con il mondo, dovevo fermarmi a chiedermene la ragione, ma se era il mondo che era in guerra con me, non dovevo curarmene. Sembrava un pretesto filosofico, ma non avevo niente di meglio a cui aggrapparmi. E la leva per risollevarmi dal vuoto, inutile dirlo, me l’aveva data Gabriele, spiegandomi come il suicidio sia un atto di ribellione, ma anche un atto di resa, così come mille atti di ribellione a volte possono portare comunque ad una resa incondizionata, perché la vera rivoluzione deve avvenire dentro di noi, nel nostro intimo, attraverso la coscienza, la consapevolezza.

La sconfitta invece passa per vicoli sconosciuti, imprevedibili, e la sconfitta era rappresentata dal troppo sangue, dalla violenza esasperata che mi spaventava, dall’orrore di tante giovani vite spezzate. La paura ti salva la vita, di certo salvò la mia, mi misi da parte, a guardare il mondo che andava in fiamme, cercando tra le cose buone di me quella che poteva rappresentare almeno uno di quei chiodi nella roccia.

- Non tutti hanno capacità autocritica, tu ne hai da vendere. Sei in grado di dire di te stessa cosa non va, è importante. Ti senti confusa e sai che quella confusione viene dall’incapacità di accettare per dogma una qualsiasi fede, politica o religiosa che sia. E’ la dimostrazione che sai ragionare con la tua testa. Finché avrai dubbi e le tue scelte rispetteranno la tua coscienza, non farai errori di cui pentirti. Se ti lasci prendere dall’emozione, dall’impulso privo di ragionevolezza, dall’impeto dei sentimenti, invece, non avrai un margine di recupero. Ogni scelta ha il suo prezzo, le sue conseguenze, prima di decidere qualsiasi cosa devi pensare alle conseguenze. -

Sorrise mentre lo diceva e io capii che cercava di darmi una mappa di comportamento per farmi uscire dal conflitto con me stessa.

- Questo significa pesare ogni attimo della tua vita su un bilancino, ma se vuoi la certezza di non dover mai accettare compromessi con gli altri, devi cominciare a non accettarne in primo luogo con te stessa. -

Dunque dovevo prendere le distanze da ciò che non faceva parte della mia indole, non tradire la mia coscienza, non accettare in nome di un ideale o di una fede compromessi con la mia anima.

Il solo compromesso al quale non potevo rinunciare in quel momento era quello con Franco, qualsiasi compromesso pur di non perderlo del tutto. Ma questo a Gabriele non lo dissi, non avrebbe capito.

E’ strano come ognuno di noi abbia la capacità di sentirsi unico, assolutamente al di sopra di chiunque altro, quando è innamorato. Parlando della potenza dei sentimenti, nello specifico dell’amore, si da’ una misura incalcolabile all’intensità o alla determinazione con la quale gli esseri umani perseguono i loro fini in amore. C’è una letteratura mastodontica sull’amore e sugli eroi che combattono per esso e lo si sfoggia come unico e assoluto valore della propria esistenza con troppa facilità.

Io non lo potevo sfoggiare, poiché nessuno avrebbe mai condiviso ciò che provavo per una persona come Franco. Eravamo in una fase culturale che chiamarono rivoluzione sessuale, si parlava di coppia aperta, di amore libero, di sesso senza inibizioni, ma se parlavo a chiunque del sentimento che provavo suscitavo disgusto, o rifiuto, o quanto meno ilarità. Che cosa ridicola, essere innamorata di un omosessuale, con tendenze masochiste per giunta. E che orrore starsene lì a sentire il racconto raccapricciante e scandaloso delle sue avventure amorose.

Perché era questo che facevo, da buona amica e confidente spirituale, ascoltavo le sue ansie, i suoi bisogni, le sue fantasie, come se nulla fosse, come se non mi importasse, e soffocavo di dolore affondando sempre più profondamente in un universo che non mi apparteneva.

L’estraneità della mia sessualità e della sua era tale da apparire a volte persino grottesca, io che avevo terrore della penetrazione mi ritrovavo ad entusiasmarmi quando lui mi raccontava il sesso consumato la notte precedente, a volte fin nei particolari. E lui aveva per i rapporti sessuali completi una predilezione sconvolgente. Non riuscivo ad immaginare cosa gli piacesse tanto del coito con un altro uomo, ma da come ne parlava sembrava fosse una specie di trip erotico, la stessa descrizione l’avrebbe data un cocainomane della sua sniffata.

La mia sessualità invece languiva in un limbo di terrori, di ansie, di immagini legate per lo più alla violenza e non riuscivo a credere che ci potesse essere piacere, o anche solo tenerezza. Se pensavo a lui sopra di me sentivo che avrei resistito al contatto, forse anche ai baci e alle carezze, ma l’idea di sentire qualcosa affondare dentro di me, mi toglieva il fiato.

Lui non avrebbe mai fatto il minimo tentativo di farsi largo tra le mie gambe, se ne avevo avuto il dubbio, o addirittura il desiderio, grazie alle sue confidenze mi resi conto che non sarebbe mai potuto accadere.

La tenerezza e l’affetto che ci legavano diventavano ogni giorno più intensi, a volte  avevo voglia di spingerlo sul letto e spogliarlo, toccarlo e possederlo.

A volte invece cercavo di immaginarlo insieme a Federico, ma faticavo a credere che il sesso tra loro fosse qualcosa di tenero, di delicato. Non avevo coraggio di proporgli quella fantasia che rincorrevo ormai ogni notte di un rapporto a tre, neanche quando i suoi discorsi diventavano più intimi, temevo che mi giudicasse male, che avesse orrore di me.

Ma più il tempo passava più mi convincevo che era il solo modo, e mentre fuori della finestra il mio meraviglioso sogno di libertà e di ribellione andava in fiamme, dentro di me bruciava un desiderio irrazionale e furioso di realizzare il solo progetto irrealizzabile della mia vita, partecipare in qualche modo al rapporto d’amore tra Franco e Federico.

Rimasero insieme quasi sei mesi, dalla primavera all’autunno, ma non trovai  il coraggio di farmi avanti, frustrando ancor più, se possibile, la mia passione.

Andarono in vacanza insieme, in Sardegna, dove Franco desiderava andare già da due anni, senza riuscire a decidere tra il viaggio che aveva progettato e l’acquisto di un nuovo negozio.

Tutti quei soldi per la caparra se ne stavano ad ammuffire in banca, decise di utilizzarli per qualcosa di speciale, e Federico era davvero speciale. Mi venne da pensare che una volta lo aveva detto di me.

Franco sapeva bene che i rapporti d’amore, specie tra le persone come lui, si incrinavano facilmente e duravano sovente troppo poco per contarci su, quindi continuava a contare su di me.

Avevo trascorso un’estate d’inferno, ospite degli odiosi zii, in un paese orribile e insignificante dell’Abruzzo, la sola nota positiva era che avevo un’abbronzatura caraibica, che mi restò sulla pelle fin quasi a Natale. Le mie giornate erano state tutte uguali, me ne restavo stesa sulla spiaggia, per lo più sola, a contare granelli di sabbia, gabbiani e pattìni. Neanche l’ombra di un moscone da spiaggia, i ragazzi sembravano non notare la mia presenza, ma non me ne facevo un cruccio. Loro stavano a distanza da me e io da loro. Non era la Sardegna, ma potevo illudermi che era un posto accettabile, bastava non dare confidenza a nessuno e starsene il più possibile da soli.

Quando tornai dalle vacanze Franco aveva riaperto il negozio da un pezzo, ed era già stanco di nuovo, come se non fosse andato affatto in ferie, ma c’era di più, era depresso.

- Probabilmente la colpa è mia. Pretendo sempre troppo, ma avevo davvero creduto che Federico fosse diverso dagli altri. -

- Cosa ti ha fatto? Qualche scenata? -

- No, ma è diventato sfuggente. Sembrava annoiato. Era irascibile, nervoso, indisponente. Poi è sparito per tre giorni e quando è tornato non ha voluto dirmi dove era stato. Così abbiamo litigato. -

- E siete ancora sul piede di guerra? -

- Lui non risponde alle mie telefonate e alla sede del Fuori non ci va più. Ha detto che sta lavorando alla radio, ma non si fa trovare neanche lì. -

- Magari ha bisogno di starsene un po' per conto suo. Dovresti lasciarlo in pace. Se gli stai appiccicato finisce che ti molla. -

- Tu lo molleresti uno che ti fa capire che senza di te non riesce a vivere? -

Bella domanda, fosse stato lui a non poter vivere senza di me, no, non lo avrei mollato, ma forse averlo sempre intorno poteva anche essere un tantino asfissiante, Franco era molto esigente e aveva bisogno di continue conferme in amore.

- Non riesco a smettere di pensare a quei tre giorni che è sparito. Doveva essere con qualcuno...  -

- La gelosia uccide i sentimenti, lo sai? Una persona gelosa dimostra di non avere fiducia in chi ama, non è una bella cosa. -

- Io non sono geloso, ma se non vuole più stare con me dovrebbe dirlo, non credi? -

- Forse non è questo che vuole, forse due settimane insieme sono state troppe e lui aveva bisogno di starsene da solo. A volte la solitudine... non è poi così negativa, ti aiuta a fare l’inventario della tua vita. -

- Beh, cosa avrebbe da inventariare? Ha solo ventitré anni. -

- Perché? Tu a venticinque non lo hai mai fatto, un inventario? -

- Sì che l’ho fatto, ma non ho avuto bisogno di tre giorni. Un inventario presuppone una serie di cose da mettere in fila, dico tanto se dico di averne una diecina da elencare. E poi a che serve un inventario se non devi cambiare vita? -

Lo diceva a me, io facevo l’inventario di me stessa da quando avevo quattordici anni, Gabriele me lo proponeva come terapia ad ogni seduta, e sembra assurdo dirlo, avevo una montagna di cose da mettere in lista. Non dovevo cambiare vita, dovevo cambiare me, e forse Federico stava facendo questo, stava cercando di cambiare sé stesso. Non glielo dissi e quasi mi sentii sollevata all’idea che Federico potesse aver deciso di diventare eterosessuale, magari solo per fargli dispetto.

- Un omosessuale generalmente non prende una decisione simile. Voglio dire che non è una cosa che si decide. La natura sessuale delle persone non è mai razionale, viene dal profondo dell’inconscio, si forma per miriadi di ragioni diverse e non è mai qualcosa che si può condizionare con la volontà. -

- Ma può succedere? -  Gabriele sorrise, sapevo cosa pensava, pensava che quella domanda la facevo perché speravo ancora. Mi prese la mano e disse con tenerezza: - Senti, ragazzina, non voglio convincerti di quanto sia inutile il tuo amore, sono un medico della mente, un dottore dell’anima, conosco certe devianze sessuali curabili, certe pulsioni dell’eros che possono essere controllate e modificate, ma l’omosessualità oltre che una pulsione sessuale diventa una scelta emotiva. Non è solo il sesso, è tutto l’universo dei sentimenti, delle sensazioni, delle emozioni che tende a rivolgersi verso una persona del proprio sesso. Non è una malattia, e quindi non guarisce, come un raffreddore o una polmonite. Non c’è una cura per lui, non guarirà da quello che è. -

- Lo so questo, lo so. Era solo una domanda, volevo solo esserne sicura...  -
- Continui a farti del male, lo sai? -

- Non posso farci niente. Non riesco a smettere di volergli bene. E ho bisogno di lui, anche se non mi ama, anche se non mi vuole. Mi fa stare male solo quando...  - esitai e lui smise i sorridere.

- Quando? -

- Quando ci penso, quando penso che tanto... non accadrà niente tra noi...  -

- E vorresti che accadesse? -

- Vorrei...  -  arrossii, forse non era il caso di spiegare altro, ma Gabriele non era uno che mollava la preda facilmente, una volta che l’aveva stanata.

- Vorresti che ti toccasse come un uomo, che ti desiderasse? -  annuii, ma a lui non bastava. - Hai sempre detto di avere paura delle mani di un uomo, delle sue non ne hai? -

- Credo che non ne avrei, se ci provasse...  -

- Io credo di sì, e sai perché? Perché tu ti fidi di lui, e sei sicura che non è capace di farti del male. Ma questa certezza viene solo dal fatto che hai un’ottima ragione per pensare che non lo farà. Se lui cambiasse di colpo, se di colpo scoprissi che è eccitato dalla tua presenza, dal tuo corpo, che ti desidera, tu non scapperesti via? -

Non lo sapevo, ma dissi di no e Gabriele rise.

- Che bugiarda! Che incredibile bugiarda! Ti farebbe stendere sul letto, ti spoglierebbe, ti toccherebbe e alla fine ti vorrebbe possedere, e tu urleresti e scapperesti via. Non riesci a superare il trauma della violenza, e lui ti serve solo ad illuderti che sapresti affrontare un rapporto con un uomo. Invece stai scappando e scapperai per il resto della vita. Lui non sarà mai il tuo ragazzo, è chiaro? Vieni fuori dal guscio, maledizione! Dimmi una buona volta quello che senti! Tira fuori quel terrore che nascondi! -

Non era per niente facile, non c’erano parole per poterlo esprimere, avrei voluto che Gabriele avesse il potere di entrarmi nella mente e leggere nel profondo quella sensazione, no, quelle decine di sensazioni orrende che mi chiudevano la gola e il cuore. In due anni e mezzo di terapia non ero riuscita a dirlo. Non ci ero riuscita mai, neppure quando lo avevo deciso, e avevo fatto le prove per dirlo, cercando le frasi giuste perché lui capisse.

Lui voleva che venisse da me il bisogno di parlarne, non aveva mai forzato la mano, ma forse decise che era ora di tirami fuori il rospo.

- Voglio sentire dalla tua voce le cose che pensi di lui. -

- Penso che sia... una persona speciale, lui è diverso dagli altri, e in questo non c’entra il fatto che gli piacciono gli uomini...  -

- No? Allora cosa ha di diverso? -

- E’ pulito, sincero, e c’è una strana tenerezza nel suo modo di fare. Vorrei saperlo spiegare, il fatto è... che è solo una sensazione, quando gli sto vicina mi sento bene...  -

- E Claudio invece? Com’era? - sussultai, non pensavo a Claudio da moltissimo tempo, avevo cancellato la sua immagine e non lo avevo visto più da quel giorno. Rimasi zitta per diversi minuti, Gabriele era abituato a quei silenzi, facevano parte del gioco, un gioco al suicidio mentale.

- Claudio era... affascinante. Era un ragazzo molto aggressivo, anche se non lasciava pensare che fosse cattivo...  -

- Cattivo. Concentrati su questo. Claudio è cattivo, Franco no. Perché? -

- Forse perché Claudio mi ha fatto del male! -  dissi con rabbia e lui mi puntò l’indice e disse: - Hai lasciato che te ne facesse. -

- Non potevo difendermi. -

- E non potresti neanche ora. Se accadesse ora? -

- Non lo lascerei entrare in casa. -

- D’accordo, ma se ti fidassi di lui, se non sapessi che è cattivo? -

- Me ne accorgerei, adesso lo capirei com’è veramente. Mi piaceva sentirlo suonare la chitarra e cantare, ero una ragazzina, e lui aveva un modo così... così subdolo di comportarsi. Sembrava gentile, sembrava per bene. Non potevo saperlo, non potevo immaginarlo. -

- Non potevi, certo. Perché ti fidavi di lui. Allora fidarsi è un male? Bisogna essere diffidenti? O addirittura sospettosi? -

- Non sempre, non in tutti i casi. -

- Solo con le persone cattive. E come si fa a sapere se sono cattive? Hanno un marchio? Un comportamento che ci mette in allarme? -

- Temo di no, lui sembrava un bravo ragazzo. -

- E lo era probabilmente. Solo che voleva qualcosa da te, qualcosa che tu non eri pronta a dare. E l’ha presa con la forza. Dimmi cosa senti quanto pensi a questo, che ti ha costretta a fare qualcosa che non volevi. -

- Penso... penso che lo odio! Penso che avrebbe meritato di essere punito. E penso che se potessi... gli farei del male! Sì, se potessi mi vendicherei. -

- E poi ti sentiresti meglio? Se sapessi che lui ha pagato per quello che ti ha fatto, riusciresti a superare la paura e il sospetto? -

- No, non credo che servirebbe. -

- Allora il problema non è Claudio, è quello che lui ha lasciato dentro di te, facendoti del male. Devi affrontarlo. Andare oltre la rabbia, il rancore, l’odio, il risentimento. Giù, in fondo al tuo inconscio, dove si annida quella paura. Non c’è modo di difendersi dalle persone cattive, non c’è modo di prevenire una violenza di qualsiasi tipo, e non c’è modo di smettere di aver paura. Hai una sola possibilità, evitare per il resto della vita il rischio. E’ questo che stai facendo. E’ questo che non devi assolutamente fare. Sei mai caduta dalla bicicletta, da bambina? -

- Sì, certo. Ma che c’entra...  -

- Per questo hai smesso di andare in bicicletta? -

- No, ma è un po' diverso...  -

- Perché è diverso? Solo perché il dolore è meno forte? O la paura è più facile da dominare? Hai provato a dominare quella paura? A superare il dolore? Ci hai mai provato? -

- No. -

- Dobbiamo farlo. Dobbiamo provare a risalire sulla bici, a non pensare che cadremo di nuovo, che non sappiamo più pedalare, che abbiamo paura. -

Quando parlava al plurale iniziava quello che lui chiamava analisi interattiva. Funzionava come uno specchio, uno di fronte all’altro ci sforzavamo di tirare fuori le sensazioni e i pensieri, stimolandoci a vicenda.

In genere si partiva da un episodio insignificante, ma per arrivare dove lui voleva arrivare, non potevamo girarci intorno, così buttò l’amo e io abboccai.

- Sei sicura di non aver avuto la sensazione che era pericoloso farlo entrare in casa? -

- Ho pensato solo che papà non avrebbe approvato. -

- Ti sei chiesta perché? -

 - Perché non gli piace che io dia confidenza ai ragazzi. -

- Papà è severo. Papà non si fida di te. E’ così? -

- Sì, è così. -

- Tu ti fidavi di te, e ti fidavo di Claudio. Quello che papà voleva insegnarti è che il pericolo non sempre è manifesto. Voleva insegnarti la prudenza. -

- Credo di sì, credo che sia così. -

- Come potrai spiegare a papà che non hai voluto fidarti lui, mentre ti sei fidata di Claudio e di te stessa? -

- Non posso spiegarlo, non riesco a perdonarmelo...  -

- Ti senti in colpa? -

- Sì. -

- Vorresti dirglielo? Vorresti che capisse che sei pentita? -

- Certo, ma questo lo abbiamo già detto un sacco di volte! -  piagnucolai e lui mi fece cenno di tacere.

- Oltre che a papà devi rendere conto a te stessa di quello che hai fatto. Sai che ti sei fatta del male. Come giustifichi questo con la tua coscienza? -

- Ho fatto una cosa stupida, e sto pagando le conseguenze. -

- Nient’altro? Solo delitto e castigo? -

- Cosa vuoi che dica? Che mi dispiace, che sono colpevole, che non avrei dovuto? Mi pare che l’inferno che sto passando...  -

- Inferno. Stai espiando il tuo errore. Questo significa che ti riscatterai, che ad un certo punto ti sarà perdonato. Quando credi che accadrà? Quanto tempo dovrai trascorrere nell’inferno prima di poter raggiungere la pace? -

- Gabri, mi sembra che siamo fuori dal seminato... -  mi fece di nuovo segno di tacere e mi fissò, aspettando la risposta: - Non lo so! Va bene? Non lo so quanto ci vorrà. -

- Credi in Dio? -

- No. Sì... non lo so. A volte. A volte prego. -

- Sai che Dio è perdono? -

- Se ti penti...  -

- E tu sei pentita. Credi che Dio possa perdonarti? -

- Non ho fatto niente! Hai capito? Io non ho fatto niente! E Dio non ha proprio niente da perdonarmi! -  la rabbia per quel senso di colpa che non riuscivo a far tacere esplose e lui sorrise.

- Lo dici a me? Io lo so, sei tu che non vuoi crederlo. Tu non hai fatto niente e continui ad espiare un delitto che non hai commesso. Lui ti ha afferrata, ti sbattuta sul divano, ti picchiata, ti ha strappato i vestiti e ti ha stuprata. E tu cosa hai fatto? Hai pianto, hai gridato, ti sei ribellata. Potevi fermarlo? -

- No! -  e scoppiai a piangere, di colpo mi venne addosso tutto il dolore, la rabbia e la disperazione per quello che era successo, era così viva la sensazione che mi piegai con le braccia strette sulla pancia e una cosa orrenda che mi spingeva dentro con violenza. Gabriele mi mise le mani sulle spalle e mi scosse.

- Cosa avresti potuto fare? -

- Niente! Mi ha presa a schiaffi, ogni volta che gridavo mi colpiva. E... mi stava sopra e io stringevo le gambe e non riuscivo a tenerle chiuse. E poi ha cominciato a grugnire come una bestia e mi morso il collo, e poi... poi ho sentito male. Una cosa che entrava... -

Gabriele mi abbracciò, e io singhiozzavo, era già accaduto, avevo pianto tante volte con lui, ma mai in quel modo, convulso, isterico.

- Ti entrato dentro. Pensa a questo. Pensaci. Dentro di te, e tu non volevi. Ha fatto qualcosa che va oltre la pura violenza fisica, non si è fermato alla vagina, è andato oltre, dentro l’anima. E’ così? Ha raggiunto una parte di te che non rimargina come una ferita di carne, perché è una ferita psichica. E’ questo che non puoi perdonarti, di avergli permesso di restarti dentro, perché lui è lì, in fondo al tuo inconscio e ogni volta che pensi ad un uomo pensi a lui. Dobbiamo sradicarlo da lì, dobbiamo buttarlo fuori! Dobbiamo cacciarlo! -

- Potessi cancellare il ricordo...  -

- Cancellare. Non ci sono tecniche di rimozione sufficienti per fare questo. Non possiamo cancellarlo, ma possiamo renderlo innocuo. -

- E come? -

- Lo stiamo facendo. -  mi sembrava che stesse accadendo il contrario, stavo peggio di prima, stavo male come non ero stata mai, e il malessere era diventato fisico. Sentivo tutto il corpo dolorante, come dopo la violenza, avevo male al ventre e alle braccia, e i muscoli erano tesi come quando Claudio mi aveva lasciata andare. E mi sentivo sconfitta, un cumulo di immondizia inerte abbandonata su sé stessa. Lo dissi a voce bassa.

- Mi sento sporca. - e lui sorrise, mi teneva ancora tra le braccia, mi carezzò il viso e disse piano: - Non lo sei. Hai bisogno di lavarti? -  feci cenno di sì con la testa e le lacrime mi salirono di nuovo alla gola.

- Credi di poter cancellare con acqua e sapone quello che ti è rimasto dentro? - scossi la testa e lui mi lasciò andare, poggiai le spalle contro le schienale della poltrona e sospirai.

- Cosa posso fare? -

- Vuoi una pozione magica? Non ce l’ho, è un lavoro duro, lungo, difficile. Ma puoi farcela. Devi crederci, devi credere che andrà via, che riuscirai a lavarlo via, anche se dovrai usare soda caustica e non sapone. Non è una cosa indolore. Come ti senti? -

- A pezzi. Come se mi avesse...  -

- Stuprata di nuovo. Lo so. Funziona in questo modo, dovrai riviverlo milioni di volte, finché smetterà di farti sentire così. -

- Come un film del terrore. Più volte lo vedi... meno paura ti fa. -

- Brava, ragazzina. Hai capito benissimo. Te la senti? -

- Ho un’alternativa? -

- Temo di no. -

- Non mi mollerai, vero? Ho paura...  -

- La supereremo, presto non avrai più bisogno di me. -

- Sei mesi fa non la pensavi così. -

- Sei mesi fa eri nel limbo, ora sei sulla terra, con i piedi per terra. Facciamo una scommessa? Io dico che in un anno scarso ci rimettiamo in sesto. Se non è così, smetterai comunque di pagarmi le sedute. Ma se vinco la scommessa... dovrai fare qualcosa per me. -

- Cosa? -

- Trovarti un ragazzo. - 

Parlava bene, lui. Come se fosse facile. Non riuscivo a trovarlo un ragazzo che andasse bene, quelli con i quali ero uscita non erano affatto sgradevoli. Mi lasciavo corteggiare, mi ci mettevo insieme e subito dopo mi pentivo. Non era giusto Armando, geloso e possessivo, a volte persino paranoico. E neppure Nicola, che mi voleva addirittura sposare. E tanto meno andava bene Paolo, troppo romantico e pieno di ansie. Insomma, mi sembrava che non ci fosse al mondo un ragazzo giusto, uno per il quale valesse la pena. Franco me ne aveva presentati altri, non erano tutti come lui, alcuni erano eterosessuali, ma non mi interessavano.

Tra i compagni di scuola poi, non ce n’era uno che avesse un briciolo di fascino. Neppure il ragazzo cileno, dall’aspetto decisamente piacevole e con quell’aria indifesa che solo gli eroi sconfitti hanno, mi attraeva più di tanto. Era cupo, triste, sempre silenzioso, e mentre le altre mie compagne erano concentrate su di lui e sulle sue sventure, io mi interessavo solo all’aspetto politico della sua presenza tra noi, era un rifugiato e ci parlavo solo della dittatura del suo paese. Diventammo amici, e io capivo che gli piacevo, ma lo tenevo a distanza. Carlos aveva la mia età, era abbastanza carino, era dolce, era timido, ma mi dava un senso di disagio restare sola con lui, ascoltarlo raccontare in un italiano storpio e spesso incomprensibile, la sua prigionia nei carceri cileni. Non potevo sostenere una dose suppletiva di violenza, e lui ne era carico, lo erano i suoi occhi, i suoi gesti e le sue parole.

Da quando avevo lasciato affiorare il mio malessere ogni gesto violento, ogni pensiero o immagine legati alla brutalità mi facevano male, mi pietrificavano.

I suoi racconti mi lasciavano una sensazione di orrore e di impotenza tali, che finii con l’evitare di parlarci. Così come evitavo le manifestazioni, le pagine dei giornali, i racconti dei compagni, la loro rabbia, la loro violenza.

Mi faceva stare bene solo la compagnia di Franco. Lui era vitale, era solare, pieno di entusiasmo, anche perché quella era la sua natura, lui viveva in positivo, qualunque cosa la vita gli riservasse vedeva sempre e solo il lato positivo delle cose.

- Non ci riesco sempre. A volte vado anch’io in depressione, ma anche oggi che piove e che non ho avuto un cliente in tutta la giornata, mi sento comunque bene. -

- Beato te, a me la pioggia mette una tristezza! -

- Perché non sai che la pioggia è romantica. Se stessi al caldo, in un letto accogliente, con la persona che ami, il fuoco nel camino, e una bella musica alla radio. E poi un vassoio di dolci e una bottiglia di vino frizzante. E voilà! Non sarebbe magnifico ascoltare la pioggia che batte sui vetri? -

- La fine del mondo. Ma sono qui, nel tuo negozio, zuppa fradicia, devo riprendere l’autobus e tornare a casa. Sentirmi la predica di papà: “Dove accidenti vai con questo tempo sempre in giro fannullona hai fatto i compiti ti verrà il raffreddore” Che palle! Che c’è di romantico? Dimmelo! -

- Papà inveisce? Ti chiudi in camera, spegni la luce e accendi lo stereo, chiudi gli occhi e immagini di essere in un altro posto. -

- Ho diciassette anni, Franco. Ed è tutta la vita, da quando riesco a ricordare, che mi chiudo in camera e faccio finta di essere da un’altra parte. Ma per quanto devo continuare a far finta? -

- Finché non riesci a farlo davvero. Devi crescere ancora un po'. -

- Fra otto mesi sono maggiorenne. Cambierà qualcosa? -

- Sì, potrai votare, guidare la macchina, andare in galera. Potrai sposarti e avere figli, e andare a lavorare. Che altro? Non mi viene in mente altro. -

- Non è un granché, tutto sommato. -

- Ah, certo! Potrai vedere i film vietati e fare sesso con chi vuoi! -

Rise e anch’io scoppiai a ridere, lui era capace di farmi sentire felice, bastava così poco, e tutto sembrava meraviglioso, anche la pioggia.

Decise di accompagnarmi a casa in macchina, chiamai mio padre e gli dissi che sarei arrivata più tardi, perché pioveva a dirotto e avrei aspettato un amico che mi desse un passaggio. Non disse nulla, ma mi portò il broncio per una settimana. I miei orari di rientro erano assurdi, non più tardi delle sette in estate e non più tardi delle sei in inverno. Mi domandavo a cosa servisse. Io ero stata stuprata alle due del pomeriggio, e in casa mia.

- Chi è questo amico con la macchina? -  mio padre era così, non diceva nulla sul momento, ma non dimenticava.

- E’ un ragazzo che ho conosciuto. -

- Dove? -

- Ci siamo conosciuti alla sede Radicale. Non è pericoloso se vuoi saperlo, è assolutamente innocuo... - esitai per paura della sua reazione, poi dissi d’un fiato: - Gli piacciono i ragazzi, è gay. -

- E’... cosa? -  di colpo mi prestò attenzione, come se mi fossi trasformata in un alieno verde con le squame e i tentacoli.

- E’ omosessuale. - mi parve di aver chiarito il concetto, ma la sua espressione non cambiò, pensai che davvero mi stessero spuntando dei tentacoli sotto le ascelle. Mi strinsi nelle spalle e lui mi fissò con orrore.

- Mi stai dicendo che vai in giro con un frocio? -

- Non ci vado in giro! Siamo amici. -

- Amici. Sei amica di uno... di un...  -

- Gay, papà! Si chiamano gay! Ha un bel negozio di abbigliamento al centro, veste come una persona normale, anzi, devo dire che è molto elegante, molto educato e decisamente bello... e assolutamente per bene. -

- Ma va a letto con gli uomini...  -

- Beh, dovresti essere contento, così puoi stare tranquillo che non verrà mai a letto con me. -  il ceffone mi arrivò sulla faccia senza che potessi attutire il colpo, non me lo aspettavo. Forse non se lo aspettava nemmeno lui. Si infilò la mano in tasca e mi voltò le spalle, il silenzio si fece gelido.

- Perché? Cosa ho fatto? -  chiesi trattenendo i singhiozzi.

- Parli come una... come una schifosa...  -

- Cos’è schifoso? Il fatto che sono sua amica? O il fatto che gli piacciono i ragazzi? Cosa credi che facciamo quando siamo insieme? Parliamo, parliamo e basta! Lui non mi farebbe mai del male. E’ meglio di tanti altri ragazzi eterosessuali, come quello stronzo di Claudio! -

Di colpo si voltò e mi fissò, e la sua espressione era cambiata, non gli avevo mai visto gli occhi pieni di lacrime, nemmeno quando era morta mia madre, non aveva mai pianto davanti a me.

Lo abbracciai e lui accettò quel gesto, che non mi aveva mai concesso prima, poi disse: - Ho paura che ti facciano ancora del male...  -

- Devi credermi, lui è la persona più buona del mondo. -

- Sei sicura di poterti fidare di lui? -

- Sì, Gabriele dice che sto facendo uno sbaglio, che dovrei cercarmi un ragazzo. Io invece sto bene così, non voglio nessuno. Ma ho bisogno di un amico. E Franco è solo un amico. -

- E Barbara? - non gli piaceva Barbara, la giudicava troppo trasgressiva e poco seria, ma non avrebbe avuto cuore di impedirmi di vederla, e forse a quel punto avrebbe preferito che restasse la mia sola amica.

- A Barbara voglio bene, stiamo bene insieme, ma con Franco è diverso. E’ una persona matura...  -

- Ma quanti anni ha? -  di nuovo mi sembrò spaventato, lo rassicurai.

- Ha ventisei anni e sembra un ragazzino, ma è una persona molto saggia. -

- Ha nove anni più di te! E’ un uomo...  -

- Non esattamente! -  dissi e mi scappò da ridere, papà abbozzò un sorriso imbarazzato, poi disse di mala voglia: - Forse dovesti farmelo conoscere. -

- Oh no! Oh no, papà! Ti prego! Lui... lui si sentirebbe in imbarazzo, non posso chiedergli questo. -  ma l’imbarazzo lo avrebbe avuto per primo lui, ne ero certa. Mio padre ragionava come un moralista in materia di sesso, anche se non era affatto un bigotto, aveva votato per il divorzio, e non era cattolico, l’omosessualità era comunque un tabù, una cosa vergognosa, faceva paura e metteva i brividi. Si rassegnò all’idea che comunque avrebbe saputo dove trascorrevo i miei pomeriggi, dentro un negozio di abbigliamento. In fondo era meglio che la sala riunioni di Lotta Continua e quella delle femministe.

Non mi criticava per le mie idee politiche, ma neanche mi gratificava della sua approvazione. Ero troppo giovane per tutto, per la politica, per il sesso, per la capacità di decidere e il fatto che fossi ad un passo dalla maggiore età non cambiava le cose.

Avrei voluto dirgli: - Sai papà, sono innamorata di lui. Gli voglio bene, così bene che mi fa male dirlo. E lui non mi amerà mai. Aiutami papà, ho tanto bisogno di te. -  invece non dissi nulla e me ne andai in camera mia, spensi la luce e accesi lo stereo e immaginai di essere in un altro posto, con qualcuno che amavo, mentre fuori pioveva.


 

* * *

Andai a vedere un film vietato, con Franco naturalmente, e con Barbara; era un’opera d’arte, avevano detto, ma qualcuno lo aveva definito un film sporco. Il Marlon Brando che ricordavo io era un gran fico, con una faccia da schiaffi e quell’aria di sfida che lo rendeva insopportabile e irresistibile. Marlon Brando di “Il selvaggio” o di “Fronte del porto” era molto invecchiato, quello sullo schermo era un uomo maturo, sfatto, quasi disgustoso.

Le scene di “Ultimo Tango a Parigi” furono sopportabili fino a metà film, poi di colpo cominciai a sentirmi a disagio, e subito dopo mi venne la nausea. Giunti alla scena del burro mi sentii male.

- Santo Cielo, se sapevo che ti faceva quest’effetto...  -

- Barbara, per favore. Ho vomitato. Ora mi passa. -

- Anche a me ha fatto un po' impressione. Ma non fino a questo punto...  -

- Il film non c’entra, ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male. -

- Senti, con me non ne vuoi parlare, e va bene. Ma questa cosa, questa cosa che hai dentro devi superarla. Non puoi restartene chiusa nel cesso per il resto della vita. Perché non cerchi di lasciarti andare un po'? Vieni alla festa di Capodanno con me, magari conosci qualcuno...  -

- Non voglio conoscere nessuno. Sto bene così. Insomma, dovete smettere di farmi conoscere ragazzi, tanto non voglio stare con nessuno. -

- Carlos ha una cotta per te, e anche Tonino. E poi piaci ad un sacco di altri, anche se non so cosa ci trovano in te. Più passa il tempo e più diventi scostante, e ti vesti in un modo... - allungai un braccio, la spinsi contro la parete, pigiandole una mano sul petto e la minacciai.

- Devi finirla di dirmi quello che devo fare! E devi finirla di dirmi le cose che non ti piacciono di me! Non ti piaccio? Chi se ne frega! Chiaro? -  mi fissò come se mi vedesse con gli occhi di mio padre, l’alieno con le squame e i tentacoli si era di nuovo materializzato.

- Noi siamo amiche! Devo dire le cose che penso altrimenti che amicizia è? -

- Beh, ci sono tanti modi per dire le cose. E per essere amiche bisogna avere stima l’una dell’altra. Tu hai stima di me? -  annuì e mi sembrò spaventata, ma non avevo intenzione di perdonarla, non questa volta.

- Allora se hai stima di me, accettami come sono. Io non ho mai cercato di cambiarti. Ti ho mai detto che non mi piace come fai la cretina con i ragazzi? Ti ho mai detto che porti le gonne troppo corte? Ti ho mai detto che non ti sopporto quando devi comprarti un vestito? No. Allora fa altrettanto con me. Non dirmi cosa non ti piace. Dimmi cosa apprezzi di me, è di questo che ho bisogno. Ammesso che tu abbia intenzione di aiutarmi. -

Rimase zitta, la lasciai andare e mi resi conto di aver esagerato, avevo agito con un’aggressività che non credevo di avere e che forse lei non meritava, ma le avevo concesso troppe volte di mettere in secondo piano le mie necessità per soddisfare le sue. Barbara era dolce e affettuosa con me, ma era anche tremendamente egoista, prendeva tutto ciò che poteva dal nostro rapporto di amicizia, a me lasciava poco spazio. La sua tenerezza mi disarmava e non riuscivo mai ad imporle nulla di me stessa, neppure il mio bisogno di sfogare la rabbia e la frustrazione represse.

Deglutì e riprese il controllo delle sue emozioni, la sua calma olimpionica di fronte alle difficoltà mi aveva suscitato invidia più di una volta e c’erano decine di  situazioni nelle quali aveva dimostrato quanto fosse più fredda e razionale di me, ma avevo colpito la sua sensibilità, finalmente avrebbe tenuto conto dei miei sentimenti.

- Okay. Mi piace il tuo modo di affrontare le cose. E mi piace quando tiri fuori la grinta. Io ti voglio bene, sei la mia sola amica. Vorrei non doverti più vedere così. Vorrei che non stessi male...  -  le vennero le lacrime al occhi e mi sentii un po' in colpa, cambiai tono, prendendole la mano.

- E’ inevitabile. Ci vuole tempo. Ma se mi aiuti, sarà più facile. -

- Lucilla dice che dovresti denunciarlo, quel maiale...  -

- Dopo tre anni? Devo solo levarmelo di dosso, tutto qui. -

- E’ stata quella scena vero? Quella dove lui la sodomizza...  -

- Senti, non mi va di parlarne. Comunque sì... è stata quella. Mi è mancata l’aria. Mi sentivo soffocare. E questo Lucilla non lo può capire, sarà anche la compagna femminista più in gamba che conosco, ma non ne sa un accidente di certe cose. Lei non ci è passata. Quindi... sarebbe meglio se non desse consigli. Piuttosto... parlate di me quando non ci sono? -

- Se ti da fastidio non lo farò più, è una promessa...  il fatto è che tu sei diventata incomprensibile e io avevo bisogno di confidarmi con qualcuno. -

- Potevi chiederlo a me. -

- Forse non te ne accorgi, ma sei cambiata. Sei irascibile, fredda e a volte persino aggressiva. Non è per niente facile parlare con te. -

Forse aveva ragione, mi stavo davvero comportando male con i miei vecchi amici, specie con lei. Però sentivo che era il solo modo per raggiungere il mio obiettivo, diventare più forte.

- Beh, un po' di ragione ce l’hai, però... sto facendo una fatica enorme a tornare a galla. E a difendermi il poco che ho. -  mi gettò le braccia al collo e un attimo dopo era tutto passato.

La nostra amicizia era fatta così, se cercavo di rappresentarla con qualcosa di concreto mi veniva in mente un ruscello d’alta montagna, correva ripido e impetuoso in certi tratti, spumeggiante, persino un po' travolgente, poi di colpo si dilatava in un calmo stagno, fresco e trasparente, immobile. Poi scorreva dolcemente, come se non avesse fretta, baciando le sponde verdi, sussultando sui sassi lucidi della vita. Io e lei sembravamo appartenere ad un universo separato dal resto del mondo, a volte bastava lo sguardo a dire cosa sentivamo, e se ci capitava di non vederci per lunghi periodi, questo non influiva sul nostro modo di stare insieme.