Leggende e fantasmi
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L'Immacolata
La peste scongiurata dalla Madonna
L'Immacolata nel cuore dei catanzaresi La religiosità popolare manifesta
sempre un bisogno di trascendenza e se le espressioni di devozione non possono
dirsi ancora fede, tuttavia possono tracciare la strada se ben educate e
indirizzate. A Catanzaro si sente fortemente il bisogno di manifestare lo
spirito religioso, che assume talvolta forme di devozione, al santo protettore
della città, San Vitaliano, a Santa Rita, e, in modo speciale, alla Vergine
Immacolata, proclamata Patrona Primaria e Regina di Catanzaro. La devozione a
Maria Immacolata risale ad un tempo remotissimo ma si è rafforzata allorché, nel
1641, nella nostra città, come in tutta l'Italia, si diffuse la peste e i
notabili, non sapendo quale Vergine invocare, se quella de Rosario, del Carmine,
dell'Immacolata, si affidò a dei bigliettini tra i quali estrarre la Vergine
designata, venne fuori il nome dell'Immacolata che liberò la città da quel
flagello e questo aumentò la fede e la devozione dei catanzaresi. Il dogma
dell'Immacolata Concezione di Maria Santissima, fu proclamato da Papa Pio IX,
l’8 Dicembre 1854: si racconta che fosse una giornata particolarmente buia e
piovosa ma che, nel momento in cui il pontefice si accingeva a proclamare il
dogma, i cieli si siano aperti in un'improvvisa luminosità e fasci di sole si
siano irradiati sul volto del Papa. Nel 1° centenario della proclamazione del
dogma vi furono grandi festeggiamenti alla Vergine Immacolata alla quale la
popolazione di Catanzaro fece dono di un'artistica e preziosa corona d'oro del
peso di grammi 2650, ottenuta con la fusione dell'oro offerto in una gara di
generosità e benedetta a Castel Gandolfo da Pio XII, uno stellario d'oro; furono
tessute e ricamate in oro la veste e il manto di seta catanzarese. Dopo la
seconda guerra mondiale fu ripristinato l'omaggio dell'annuale offerta di sei
ceri votivi fatta dal Sindaco, l'8 Dicembre, a nome della cittadinanza. Questi i
dati storici che motivano la tradizione, al di là della quale c'è però un vero
amore e una fede autentica verso Maria Immacolata a cui viene dato un posto di
assoluto privilegio. Nei giorni della novena giungono alla Basilica-Santuario
fedeli da ogni quartiere della città per la prima messa, infreddoliti ed
assonnati ma fervorosi e contenti di non mancare a questo tacito, collettivo
richiamo. L'Immacolata è la gloria e l'orgoglio dei catanzaresi e la festa che
le viene dedicata è un'esplosione di fede e devozione, dì atteggiamenti
cristiani che magari finiscono con la festa, ma che in quel momento nascono
convinti, abbattono barriere, uniscono ed infervorano. A questo attaccamento
alla Vergine molto ha contribuito la confraternita che ha conservato e
tramandato consuetudini ed espressioni della pietà popolare. La festa si
conclude dopo l'ottavario, il 15 Dicembre quando la Vergine, tra scroscianti
applausi, lacrime di commozione, suppliche e petizioni miste di sacro e profano,
scende dall'altare maggiore per ritornare ad occupare la sua nicchia nell'altare
laterale a Lei dedicato, di fronte a quello di San Vitaliano. I gesti che
rimangono impressi e che m modo corale vengono ripetuti per una sorta di
contagio pietistico, sono quegli sguardi supplici rivolti, con immobilità da
estasi al simulacro dell'Immacolata, la ressa per toccare un lembo del suo
mantello prezioso, le labbra che, prima socchiuse in impercettibili movimenti,
si aprono per farsi voce implorante grazie, canto, litanie. Momenti culminanti
di un'attesa protratta attraverso preparativi in cui ci si lascia coinvolgere
con piacere come, per esempio, nella vestizione della statua con gli abiti della
festa, privilegio riservato rigorosamente alle donne, il giorno precedente la
novena, prima che venga fatta salire, con un convegno meccanico, sull'altare
maggiore. La novena si conclude con i festeggiamenti dell'8 Dicembre, giorno
della festa, che ha inizio con la Messa dell'aurora che, per tradizione ormai
consolidata, richiama migliaia di fedeli che sostano sul sagrato fin dalle tre
del mattino. Piazza Prefettura si illumina a giorno e si anima come nelle ore di
punta e per tutta la giornata i catanzaresi, assistono alle varie funzioni,
numerosi, facendosi vedere, per una volta, convinti cristiani. La commozione è
il denominatore comune che in tale circostanza eleva la popolazione allo stesso
livello spirituale, dove non ci sono differenze di classe, di potere, di
cultura. L'orgoglio con cui viene ricordata la tradizione e la sua stessa
persistenza. svela non solo il valore della memoria storica, ma la stessa forza
coesiva che si fa anima e cultura del popolo.
"Legenda San Vitaliani". Nel volume XII della Bibliotheca Sanctorum, col. 1235 - 1237, edita a cura dell’Istituto Giovanni XXIII dalla Pontificia Università Lateranense, nel 1969, Domenico Ambrasi ha raccolto, con notevole bibliografia, quanto si può dire del Santo patrono di Catanzaro. Stralciamo alcune notizie. Sulla vita del Santo sono abbastanza scarse le notizie quanto più si va indietro nei secoli. Si ha memoria del culto nella chiesa di Capua, che lo annovera come venticinquesimo tra i vescovi della città. Ma anche Benevento rivendica per sé l’onore e la venerazione di S. Vitaliano, e non poche notizie sono desunte dagli archivi della biblioteca di quel capitolo cattedrale. È certo che le reliquie furono trasportate a Catanzaro da Montevergine nel 1122, e che nello stesso secolo XII si diffuse la "Legenda San Vitaliani", cioè la narrazione dei ricordi della vita quale fu scritta a Benevento verso la fine di quel medesimo secolo da un chierico locale. La vita del Santo può essere compendiata così: acclamato vescovo dal popolo, divenne pastore della città di Capua e si impegnò in ogni modo a far fiorire la pietà e i buoni costumi. Però da alcuni malevoli fu assalito con gravi calunnie e accusato di impudicizia. S. Vitaliano difese il suo onore e smascherò le insidie dei suoi nemici: ma nel lasciare la città fu preso, legato in un sacco di cuoio e buttato nel fiume Garigliano. Sempre secondo la leggenda, il santo fu salvato da alcuni pescatori e giunse incolume ad Ostia. Di qui fu richiamato dal popolo colpito da flagelli, quali la siccità, la carestia e la peste. S. Vitaliano tornò a Capua, perdonò il popolo, ma lasciò definitivamente la città per ritirarsi a Montevergine, dove chiuse i suoi giorni dopo aver dato esempio di devozione alla Madonna edificando un cappella in suo onore e propagandone il culto.Culto del Santo a Catanzaro. S. Vitaliano anche oggi è venerato a Caserta, a Orta di Atella, a Piana di Caiazzo. Ma il maggiore culto è dato al Santo nella città di Catanzaro. Il 26 marzo 1583, mentre nel Duomo predicava Fra Girolamo da Castello, improvvisamente, crollò un muro della Cattedrale e la Cappella di San Vitaliano ne rimase tanto danneggiata che fu necessario ricostruirla dalle fondamenta. La notte del 22 giugno dello stesso anno, due sacerdoti, che in tutta segretezza scavavano tra le macerie, trovarono i corpi dei Santi Vitaliano, Ireneo e Fortunato.A seguito ditale ritrovamento fu convocato il popolo e fu celebrato un solenne Te Deum. Dopo non molto tempo fu ricostruita la Cappella nella quale furono incavati tre ripostigli nella muratura ed in essi furono collocate, separatamente, le reliquie. Senza dubbio a donare le reliquie del santo Vitaliano alla città di Catanzaro fu proprio il Papa Callisto II. Si ha notizia che il 1855 fu fatta costruire in Napoli la base di argento della statua di San Vitaliano per commissione del Decurionato. Nel busto erano conservate le reliquie del Protettore. La prima Cappella che sorse nel duomo originario sembra sia stata fatta costruire dal normanno conte di Catanzaro, Roberto di Loritello allo scopo di riporre i corpi dei santi Vitaliano, Ireneo e Fortunato sotto l’altare, dal Papa Callisto II. Secondo altri, invece, la Cappella di San Vitaliano sarebbe stata costruita per la venerazione dei tre Santi e la Cappella era posta all’entrata della porta dell’olmo. Pur non avendo reperito elementi sicuri propendiamo per la prima versione. Ciò farebbe chiaramente intendere che, la Cappella non fu eretta all’atto della costruzione del duomo ma successivamente e quando giunsero in città le reliquie di San Vitaliano. Le Reliquie sono conservate nella nuova Cappella, veramente molto bella, pur essendo completamente diversa dalla precedente. Nella Cappella furono impiegati marmi preziosi che si estendono per tutta la parte basamentale. L’altare è stato costruito anch’esso con marmi molto pregiati e presenta linee semplici. A fondale dell’altare è stato costruito il trono che custodisce il prezioso simulacro in argento del Santo. La custodia comprende nella parte antistante un’artistica inferriata mobile che consente lo spostamento della statua in occasione delle grandi cerimonie.
Devozione popolare al Santo
I fedeli di Catanzaro sono legati profondamente al santo, che è Patrono della città, invocato particolarmente in difesa contro pubbliche calamità e nei terremoti. Ogni anno si celebra la festa patronale il giorno 16 luglio, preceduta da un novenario di preghiere e di predicazione. I sacerdoti di tutta l’Arcidiocesi si radunano in tale occasione per rendere omaggio al Santo e scambiare il bacio di pace con l’Arcivescovo che celebra la Messa, cui prendono parte — come nella processione delle reliquie nel pomeriggio — tutte le autorità cittadine e provinciali. Prima dell’attuale riforma liturgica ogni anno si celebrava in onore del santo anche la festa del patrocinio, fissata alla domenica in albis, a ricordo della protezione accordata ai cittadini nel terremoto del 1783. Grandi feste furono celebrate a Catanzaro nel 1922 per commemorare l’ottavo centenario dell’arrivo delle reliquie del Santo. Esse furono onorate dalla presenza di vari vescovi e in modo particolare del Cardinale Camillo Laurenti che, assecondando i voti dell’arcivescovo mons. Fiorentini, e di tutta la cittadinanza, rese memorando l’avvenimento e contribuì a ravvivare il culto di tanti secoli reso da Catanzaro al suo Patrono celeste. Nella storica visita del 6 ottobre 1984, il Papa Giovanni Paolo II, ha sostato in preghiera nella Cappella del Santo Patrono
Il
messaggio dei defunti in veste di serpi.
La leggenda vuole che nelle campagne dei dintorni di Catanzaro, le serpi che si
dovessero aggirare nelle vicinanze delle case, siano sicuramente le anime degli
antenati e invece di essere uccise, esse vengono saporitamente nutrite perché
alcuni episodi confermano quest’ipotesi: alcuni anziani raccontano, infatti, che
le serpi rivolgono la parola a coloro che gli portano da mangiare, in genere un
messaggio dall’aldilà, per cui è certo che in esse vi alberghino le anime dei
defunti, in visita ai posteri.
I tetti
sui vicoli della “Stella” La
piccola bara bianca. Fra gli anni ’40 e ’50, il figlio del falegname
Bellini, abitante nel rione “Stella” di Catanzaro, avendo a disposizione gli
strumenti del padre, già dalla tenerissima età, costruiva con le assi una
piccola bara bianca, destando la meraviglia dei coetanei per la preferenza
macabra e ripetitiva del gioco. Un giorno il bimbo, giunto all’età di 7-8 anni,
si trovò a passare, in compagnia del padre, dal Ponte di Siano. A metà del ponte
sentì una voce che, con tono imperativo e in dialetto catanzarese, gli diceva: “Tu
devi venire quà!” (Tu haj ma veni ccà!). Il fanciullo, terrorizzato,
raccontò a tutti questa sua traumatica esperienza uditiva, ma nessuno volle
dargli credito. Poco tempo dopo però, inspiegabilmente e senza nessun palese o
valido motivo, il bimbo sparì da casa. Vane furono le ricerche. Qualcuno però,
ad un certo punto, ricordò ciò che il bambino aveva raccontato e, un triste
mattino, il corpo del piccolo fu ritrovato alla base del Ponte di Siano. Senza
alcun motivo si era lanciato nel vuoto! La voce misteriosa era quella di una
maligna presenza che lo aveva attirato a se o quella del suo stesso infelice
Destino?
Abito
dei primi dell’800 simile a quello dello spettro geloso.
Lo spettro
Verso la fine degli Anni ’50 nel rione “Maddalena” di Catanzaro una
fanciulla, di 16 anni circa, della famiglia Barberio (detta “la pedona”) fu
perseguitata per molti anni dallo spetto di un uomo che le appariva di notte
nella sua casa. Il fantasma aveva le fattezze di un bellissimo ragazzo, avvolto
in un lungo mantello nero, stivali di cuoio dello stesso colore ed abiti molto
eleganti ma di foggia antica, infatti portava anche un cappello a cilindro. Esso
si materializzava il più delle volte quando la ragazza si trovava da sola nella
sua stanza. Si proponeva come suo spasimante e, al rifiuto terrorizzato della
malcapitata, la malmenava selvaggiamente dichiarandosi geloso di lei. La povera
fanciulla riportava palesemente traumi ed ecchimosi. Quando raccontava cosa le
accadeva, però, tutti la pensavano fuori di senno con tendenze autodistruttive e
autolesioniste. Il caso, dopo anni di vessazioni, fu sottoposto ad un esorcista
il quale, alla fine del suo operato, raccomandò caldamente alla ragazza di
abbandonare immediatamente la casa in cui viveva con la famiglia e di non
ripassare più, vita natural durante, neanche nelle vicinanze dell’edificio. Così
fu fatto. Nei primi Anni ’60, la famiglia si trasferì in un altro quartiere e,
da allora, la fanciulla si riprese completamente non avendo mai più problemi di
carattere fisico e spirituale, ne tanto meno esperienze di carattere
paranormale. Alcuni anni dopo la casa in cui aveva abitato la famiglia Barberio,
fu ristrutturata e, durante i lavori, all’abbattimento di una parete, fu
ritrovato lo scheletro di un uomo che, in quel punto, era stato murato vivo! Dei
resti dell’abbigliamento rimaneva ben poco, ma una cosa era ancora visibile:
degli stivali neri di cuoio ed un cappello a cilindro! Era la prova che in
quella casa vi poteva essere realmente lo spettro di un uomo che non trovava e
non dava pace. Ma, soprattutto, la ragazza non aveva mentito!
Il
cane nero. Alla fine degli Anni ’50, il signor “Gennarino”,
proprietario a quel tempo di un ristorante di Siano, alla giuda di un camioncino
adibito al trasporto, si trovava, in compagnia di un suo amico, a transitare,
verso mezzogiorno, per il Ponte di Siano. Improvvisamente, all’incirca verso la
metà del ponte, un cane nero, che nessuno dei due capì da dove fosse sbucato,
gli attraversò la strada. L’impatto con la povera bestia non poté essere
evitato. Rassegnati, i due, scesero dal mezzo per constatare il sicuro decesso
dell’animale…ma esso, rialzatosi improvvisamente, si infilò fra le balaustre del
ponte e si lanciò nel vuoto! “Gennarino” e il suo amico, meravigliati, si
affacciarono, prontamente e istintivamente, dal ponte per osservare gli sviluppi
dello strano e repentino comportamento del cane, sicuri, comunque, che si fosse
sfracellato al suolo…ma di lui non v’era traccia, ne alla base del ponte ne
altrove, il cane era letteralmente scomparso!
Il
fantasma del carabiniere. Verso la fine degli Anni ’60, saputo
con certezza di avere un cancro, un carabiniere catanzarese (di cui, però, non
si ricorda il nome), preso dalla disperazione, si suicidò gettandosi dal Ponte
di Siano. Una notte, poco tempo dopo, un giovane ragazzo di Siano (che lavorava
come cameriere in un bar del centro di Catanzaro e che aveva l’abitudine di
portare un fiasco di vino a suo padre quasi ogni sera) tornando a casa a piedi
dal lavoro, all’incirca a metà del ponte, intravide la figura di un uomo in
divisa che, rivolgendogli la parola gli chiese: “Dove vai?” e lui gli rispose:
“A casa!”. Poi ancora una strana richiesta: “Mi fai provare un po’ di vino?”. Il
ragazzo, fra imbarazzo e meraviglia, non riuscì a rispondere di no e porse
gentilmente la bottiglia. L’uomo in divisa tracannò abbondantemente, tanto che
il ragazzo pensò: “Adesso come spiego a mio padre che dalla bottiglia manca
tanto vino?”, ma non ebbe il coraggio di dire nulla a quello strano tipo. Finito
di bere, lo sconosciuto disse, con tono perentorio: “Adesso vai! Cammina dritto
e non ti voltare!”. Al tono autoritario, il ragazzo, intimorito, si avviò… ma
dopo alcuni passi non seppe resistere alla tentazione e si voltò
improvvisamente: l’uomo in divisa era scomparso! Impaurito si mise subito a
correre verso casa fermandosi, affannato, solo dopo un buon tratto e, quasi per
rassicurarsi che ciò che aveva vissuto fosse realmente accaduto, guardò la
bottiglia: ERA DI NUOVO COLMA FINO ALL’ORLO! Lo spavento per l’episodio gli
procurò una febbre altissima che lo tenne a letto per due giorni di fila. Solo
in seguito, quando riuscì a raccontare quello che gli era capitato, venne a
conoscenza del fatto che quell’uomo in divisa poteva essere, come lui
sicuramente pensava, il fantasma del carabiniere, che si era ucciso poco tempo
prima lanciandosi dal ponte!
L’amante del brigante fantasma
Nel rione “Stella”, di Catanzaro (Largo Ferragina), esistono dei cunicoli sotterranei che attraversano il sottosuolo fino ad un’altra zona della città (Via Carlo V) la quale, alla fine dell’800, ne segnava la periferia. Questi cunicoli erano usati come passaggi segreti dai briganti, i quali ne usufruivano come via di fuga o di accesso alla città. Agli inizi del ‘900 dai cunicoli furono ricavate delle abitazioni chiamate “bassi” dove vivevano, arrangiandosi, le famiglie più povere. In uno di questi viveva una vedova con figli che, pare, avendo visto, una notte un bell’uomo, vestito con abiti inequivocabilmente da bandito, sebbene meravigliata da quello strano abbigliamento, intrecciò una relazione con lui. Alle domande della donna egli rispondeva di essere vissuto da brigante, di essere stato ucciso lì vicino e di avere nascosto in quel luogo il suo tesoro, che costantemente tornava a controllare. Il fantasma con la promessa di farne, prima o poi, dono alla donna, la convinse a giacere con lui, ma spariva puntualmente dopo la mezzanotte. Anche i figli, a turno, videro il losco figuro, ma ne erano così spaventati da non osare rivolgergli la parola. Giustamente si può pensare che lo spettro non fosse altro che un furbo soggetto il quale, coperto da uno scuro mantello per non dare nell’occhio, alimentasse l’idea di essere un fantasma per non far scoprire la tresca con la vedova. Ma, a parte il fatto che, finché egli la frequentò, la famiglia non ebbe problemi a sfamarsi, il brigante aveva posto una condizione alla donna: non dire mai chi lui fosse realmente. Un giorno, però, il più grande dei figli.chiese spiegazioni alla madre e minacciò di ucciderle l’amante, poiché non sopportava la vergogna di quella situazione. La donna, solo allora gli spiegò la verità, naturalmente senza essere creduta. La notte apparve la minacciosa figura del brigante che si rivolse direttamente al figlio della donna dicendo: “Tu ora conosci la mia storia. Vieni con me, ti farò vedere il tesoro”. Alla luce di una torcia, egli guidò madre e figlio, poco lontano dal luogo dove essi abitavano e, giunti in un punto preciso del cunicolo disse al ragazzo: “Scava qui e lo troverai”. Il giovane si affrettò a fare ciò che il brigante gli aveva detto e trovò un forziere. Apertolo, vide che era ricolmo di monete d’oro. Ma, a quel punto, nel buio echeggiò una risata diabolica e la voce tenebrosa del fantasma urlò: “Quello che avete visto è ciò che non avrete mai! Come, del resto, io sono morto dannato per non averlo potuto portare con me!”. Lo spettro scomparve all’improvviso e, contemporaneamente, la torcia si spense. I due, terrorizzati, rimasero al buio. L’indomani tornarono sul luogo a cercare, ritrovarono il posto dello scavo, ma del forziere nessuna traccia. Da quel giorno in poi il fantasma-amante non comparve più, ma la notte terrorizzava gli abitanti con continui rumori e lugubri lamenti, finché tutta la famiglia fu costretta a lasciare il “basso” per trasferirsi in un altro quartiere.
Palazzo
S. Chiara (prima De Nobili), sede del Comune di Catanzaro
Simbolo del potere feudale, fu la massima espressione di edilizia privata nella città agli inizi dell'800. Appartenne ai De Nobili, una delle famiglie più agiate della città. Essi, insieme ai De Riso, ai Poerio e ad altri esponenti della ricca borghesia, riuscirono ad esercitare il potere sulla città. Nel 1883, in seguito ad un dissesto finanziario, il Palazzo fu venduto dai De Nobili al Municipio.
Adele,
la suora fantasma, e il suo amore infelice per Saverio
La storia si pone fra la fine degli anni 1830 – 1840 a cavallo del periodo storico carbonaro-rivoluzionario ed ha in comune alcuni tratti melodrammatici del racconto e delle vicissitudini di Romeo e Giulietta decantata dal grande William Shakespeare; con una differenza: quest’ultima è il frutto della fantasia del poeta, mentre questo racconto è vera storia. Due giovani, appartenenti all’aristocrazia catanzarese e a due famiglie fra le più note della città s’innamorarono. Lei, Adele, figlia del marchese De Nobili (già deceduto al tempo del nostro racconto) era appena ventenne e viveva nel suo palazzo (Palazzo De Nobili, appunto, oggi sede del Municipio) insieme alla madre e ai suoi tre fratelli. Lui, Saverio Marincola, figlio dell’omonima casata nobiliare, è il personaggio maschile. I due s’incontravano furtivamente in quanto la loro relazione era osteggiata dalle due famiglie che erano divise anche per le loro tendenze politiche: l’una, la famiglia De Nobili, fedele al governo borbonico, l’altra, i Marincola, progressista e rivoluzionaria, appoggiava la politica indipendentista carbonara. Saverio, ogni sera incontrava Adele sotto la sua finestra (l’ultima finestra a destra della facciata anteriore di Palazzo De Nobili) e qui i due con la paura di essere scoperti dai fratelli di lei, si lanciano baci e promesse d’amore. Ma, una sera, il maggiore dei fratelli di Adele si accorge della tresca, apre il portone principale del palazzo ed affronta a duello Saverio; quest’ultimo si difende ma poi riesce a fuggire, incalzato non solo dal maggiore, ma anche dagli altri due fratelli della fanciulla. Ad Adele, che viene reclusa nella sua stanza, ma il Marincola escogita un piano per poterla rivedere, facendo in modo che ella non rischiasse di farsi scoprire. Saverio arrivava la sera sotto Palazzo De Nobili in sella al suo cavallo, i cui zoccoli erano ferrati d’argento in modo tale che il suono emesso durante il galoppo fosse diverso da quello degli altri cavalli che normalmente avevano gli zoccoli in ferro. Quel suono, per Adele, era un segnale, ed ella si affacciava alla sua finestra per rivedere e salutare l’amato. La storia non evolve per almeno sei mesi; quando, una sera, intorno alle ore 21.00, il Marincola, provenendo dalla zona di Catanzaro Lido, dove si era recato ad ispezionare alcuni latifondi, viene appostato, nei pressi della salita di rione Samà, e fermato da alcuni colpi di carabina che alcuni sconosciuti gli sparano contro: soccorso da alcuni presenti, morirà dopo due ore. Alla notizia della morte di Saverio, Adele si rinchiude nel suo dolore. Non mangia, non dorme, non vuole vedere nessuno. La magistratura indaga e scopre i colpevoli: sono i fratelli di Adele. I tre fratelli De Nobili fuggono nottetempo salpando verso l’isola di Corfù. Adele, affranta, lascia il palazzo, arriva in carrozza fino a Pizzo Calabro e qui s’imbarca per Napoli dove viene accolta nel Convento delle “Murate Vive”. E’ qui, divenuta suora, che trascorrerà il resto della sua vita. Intanto i fratelli, dall’isola di Corfù, condannati in contumacia, fanno sapere agli operatori di giustizia che, se il loro reato fosse stato perdonato, avrebbero rivelato alle autorità di una certa operazione rivoluzionaria che, dall’isola di Corfù, sarebbe approdata sulle coste calabresi per tentare di far insorgere gli animi al patriottismo, contro i Borboni. Questa spedizione, in effetti, era capitanata da due fratelli che, ufficiali nella Marina Austriaca, nel 1841 disertarono per la causa dell’unità e libertà d’Italia e fondarono la società segreta “Esperia”, affiliata nel 1842 alla Giovine Italia di Mazzini. I due fratelli erano i famosi Attilio ed Enrico Bandiera (Venezia 1810 e 1819, vallone di Rovito, Cosenza 1844) che sbarcarono in Calabria per fomentare una sollevazione ed, appunto, furono traditi e fucilati il 25 luglio 1844 a Cosenza per la delazione dei fratelli De Nobili. In conseguenza alla loro delazione, i fratelli De Nobili, furono prosciolti dalla condanna di omicidio e fu permesso loro di rientrare in Calabria. Il più piccolo di loro cercò di farsi perdonare dalla sorella ed andò a trovarla a Napoli pur sapendo che era difficile vederla ma, ella rifiutò risolutamente di incontrarlo. Adele si considerava morta per il mondo intero e non avendo il coraggio di uccidersi, aveva deciso, pur soffrendo enormemente, di essere per sempre il simbolo del rimorso per i fratelli che si erano macchiate le mani di sangue. Dopo la morte di Adele, molti testimoni giurano di aver visto una figura spettrale, vestita da suora, aggirarsi nel Palazzo De Nobili. Molti di essi sono gli impiegati del Comune di Catanzaro che, anche durante il giorno, vengono disturbati da rumori improvvisi (come lo strano trascinarsi di catene), spostamento di oggetti e improvviso chiudersi o aprirsi di porte. Inoltre, la notte, gli uomini di vigilanza dell’agenzia: “Buccafurri”, dichiarano di rimanere con molto disagio nell’atrio del Municipio e, soprattutto, di essere timorosi nel fare il giro d’ispezione per le stanze, dato che alcuni di essi hanno visto e sentito lo spettro di Adele. E’ uno spirito ancora carico di rancore e di odio per la morte ingiusta del suo amato Saverio, vittima incolpevole di un amore non realizzato. Il fantasma della fanciulla torna nella casa paterna, nella speranza di rivedere ancora una volta quello di Saverio, ma non può più farlo perché affacciarsi alla finestra della sua stanza è impossibile, in quanto, nel frattempo, è stata murata. L’anima della suora vaga poiché dannata. Non è stata, in effetti, la fede a farle prendere i voti, ma la disperazione e l’odio, quindi il suo giuramento verso Dio fu falso e ciò la condanna a vagare per sempre.
Il
fantasma di Gina Cardamone. Chi entra nel Cimitero di Catanzaro, non può
fare a meno di notare la statua in marmo bianco che campeggia, appena entrati,
sulla destra, di una giovane e bella studentessa diciassettenne, diplomanda in
ragioneria: Gina Cardamone (1930 – 1947). La fanciulla morì prematuramente per
una malattia incurabile, lasciando nel totale sconforto i genitori inconsolabili
per la perdita. Il monumento, già dalla sua ideazione, fu progettato in maniera
tale che potesse accogliere ai suoi piedi i loculi del padre (Fioramante
Cardamone 31.03.1900 – 02.12.1982) e della madre (Raffaela Loprete 28.05.1907 –
31.03.2000), divisi da un piccolo vialetto atto a rappresentare la strada che
restava loro da percorrere su questa terra prima di poter raggiungere l’unica
amata figliola. Sulla tomba infatti, i genitori hanno scritto: “Con te, o
figlia diletta, s’è spento l’orgoglio dei tuoi. Sorretto dalla fede, vivificato
dalla speranza, vivrà l’affetto per te finchè i nostri cuori avranno un palpito
e una lagrima le nostre pupille”. Da ciò che periodicamente viene
raccontato dai testimoni e, finché vissero, dai genitori stessi, pare che, nelle
notti invernali e piovose, una ragazza venga vista sul ciglio della strada e
che, gli automobilisti impietositi, le offrano un passaggio fino alla di lei
casa. Alla giovane, bagnata ed infreddolita, viene spesso offerto un indumento
da indossare (un giubbotto, un impermeabile, una giacca) che le viene lasciato,
volontariamente o dimenticandolo, una volta riaccompagnata. La ragazza, se
richiestole, dice il suo nome di battesimo e rilascia qualche informazione sulla
sua vita, poi, arrivata a destinazione, scende ringraziando e scompare. Quando
l’automobilista di turno pensa di dover recuperare il suo indumento, passa
dall’abitazione della fanciulla, ma si sente immancabilmente rispondere (dopo
aver chiesto se Gina abita lì e descrive fisicamente la ragazza): “Mi spiace.
Non è possibile. Mia figlia è morta molto tempo fa!”. Quando all’incredulo viene
detto che, se vuol verificare, la tomba della ragazza si trova nel Cimitero di
Catanzaro e che la sua statua all’entrata è visibilissima, ogni volta che la
persona va a controllare, sistematicamente ritrova il suo indumento attaccato o
poggiato sulla statua di Gina. E’ inutile specificare che, puntualmente, il
volto della ragazza viene riconosciuto dalla foto posta sulla tomba come quello
della fanciulla accompagnata a casa in una notte fredda e piovosa. L’episodio si
è ripetuto molte volte in questi anni ed ogni volta i genitori di Gina si sono
visti arrivare qualcuno a casa che chiedeva della figlia. Non un modo per
rinnovare il loro dolore ma, forse, il modo di Gina per poter dire loro:
“Ogni tanto faccio in modo che vi si parli di me. Ho solo varcato la soglia di
un mondo dal quale a volte posso ritornare e nel quale vi attendo!”. Da
qualche anno non si sente più parlare del fantasma di Gina, forse perché anche
la madre, dopo il padre, ormai l’ha raggiunta oltre la vita.
“Il
Castello dei briganti” e lo scheletro del gigante.
Il Signor Santo Torquato, nato e vissuto in Contrada Barone, Catanzaro Lido, mi ha raccontato personalmente un episodio sconcertante avvenuto circa cinque anni fa (1996) a lui e ad i suoi fratelli: Salvatore e Antonio. Salvatore, per molte notti, fu tormentato da un sogno ricorrente nel quale gli appariva un uomo che insisteva nel dirgli: “Vai al castello dei briganti e scava, sotto la scala che porta al secondo piano, una fossa profonda quattro metri e mezzo. Mi trovo là sotto. Nella mia bara troverai il tesoro. Ma attento a rispettare la mezzanotte, altrimenti, ti apparirà la figura di un uomo, che controlla il posto, e non troverai più nulla”. Il povero Salvatore non riusciva più a dormire, era disperato. Allora, i fratelli, procurati gli strumenti necessari allo scavo, una notte, verso le 23.00, partirono, insieme ad altre persone, verso il posto indicato. “Il Castello dei briganti” (così chiamato perché covo dei briganti e luogo preferito di ritrovo dei malviventi della zona all’epoca del brigantaggio) si trova su una collinetta in Contrada Barone, Catanzaro Lido. Non è un castello vero e proprio, ma una grande costruzione a due piani, ormai diroccata, degli inizi dell’Ottocento. Ma torniamo al racconto. Arrivati sul luogo indicato, gli uomini cominciarono a scavare, sotto una pioggia incessante, che però non li fece desistere dall’intento. Terminata l’opera (era ormai l’una di notte), trovarono una cassa, lunga circa tre metri e mezzo, la scoperchiarono e videro un’infinità di serpenti aggrovigliati che si agitavano intorno e dentro grandi vasi di terracotta. Sul fondo uno scheletro gigantesco di circa tre metri d’altezza! Fra i serpenti ne campeggiava uno enorme e, il fatto strano, era che, siccome gli uomini intorno alla fossa erano pronti per difendersi a colpire i serpenti con le loro pale, il rettile si sollevava per aggredire ogni volta che le pale venivano sollevate e si abbassava ogni volta che le stesse venivano abbassate. La visione di tutto ciò era realmente terrificante. Trovato il coraggio, però, gli uomini cominciarono a colpire i serpenti ed uno di loro riuscì ad uccidere proprio il più grande, mozzandogli la testa dalla quale uscì tanto di quel sangue da riempire la bara, dopodiché i serpenti sparirono. Ad un certo punto i presenti furono attratti da una figura che apparve da dietro un cespuglio. Era un uomo coperto da un mantello nero. La figura venne avanti verso gli uomini e i tre fratelli lo poterono riconoscere: era un loro zio, morto molti anni prima, il quale, ad un tratto, parlò e disse: “Andate via da qui. Ormai non troverete più nulla perché siete venuti in troppi e quel demonio non ha voluto che voi aveste il tesoro”. I fratelli non potevano far altro che tornare a casa, ma prima raccolsero le ossa dello scheletro ritrovato e notarono che, a parte l’evidente gigantismo, il teschio, di sproporzionate dimensioni, presentava una ferita sul lato destro, provocata da una punta di lancia in ferro, che ancora vi era conficcata (la presenza di questo scheletro di proporzioni giganti, è confortata dal ritrovamento degli “scheletri dei giganti” ritrovati a Curinga, vicino Maida, spiegabile scientificamente con l’anomalia endocrina detta acromegalia). Di questo episodio vi sono i testimoni oculari, pronti a confermare l’accaduto e ancora oggi esiste sul posto la fossa scavata quella notte, che non è stata ancora riempita. Il posto è conosciuto da tutti gli abitanti della zona poiché si racconta da sempre che accadono fatti avvolti dal mistero. Pare che, andarci di notte, costituisca una prova di coraggio per chiunque voglia dimostrare di non aver paura. Chi c’è stato racconta che si sentono chiaramente urla e imprecazioni di uomini che lottano e che, molto chiaramente, si oda il clangore delle spade. Una ventina d’anni fa, fu eretta sul posto, proprio in cima alla collina, una grande croce che, anche se ufficialmente pare serva da riferimento ai naviganti, serviva più che altro ad esorcizzare il luogo.
I
CANONICI DI LEGNO
Un
tempo, ad ogni capitolo di cattedrale, venivano assegnate elargizioni reali che
variavano in proporzione dell'importanza che esse rivestivano e del numero dei
componenti. Un anno accadde, che a Catanzaro, per una strana coincidenza, ci fu
una moria di canonici, vuoi per l'età, vuoi per malanni, in un breve lasso di
tempo lasciarono questa vita e la comunità. Poiché da lì a breve si aspettava
l'ispezione reggia, si temette che tutto ciò avrebbe influito drasticamente
sulle riduzioni delle elargizioni reali e ci si dovette ingegnare per ovviare
una tale eventualità. Un vescovo e il suo decano, ebbero una felice idea:
commissionarono agli artigiani locali tanti manichini in legno quanti erano i
canonici deceduti. Quindi li vestirono con gli abiti talari e li sistemarono
seduti in mezzo al coro, sicuri che gli ispettori non si sarebbero accorti di
nulla in quanto si sarebbero limitati come sempre a dare un'occhiata sommaria,
facendo un controllo approssimativo, e giustificando qualche immobilità con la
sonnolenza determinata dall'età. Così tutto andò meglio del previsto, perché
ottennero generose elargizioni con grande soddisfazione degli autori
dell'imbroglio che, visti i risultati, ricorsero anche negli anni successivi a
tali espedienti. Alla lunga la cosa arrivò alle orecchie degli ispettori, i
quali, per non passare da gabbati, perdonarono il fatto ma da allora
controllarono con maggiore attenzione, che i canonici fossero vivi e vegeti,
ispezionandoli da vicino fino anche a tastarli. Da tutto ciò è rimasta
l'espressione "Finhi 'u tempu de' canonici e lignu (è finito il tempo dei
canonici di legno), per indicare che la gente si è fatta furba e non si lascia
facilmente raggirare.
CATANZARO: LO SPIRITO DEL PONTE DI SIANO.
Ancora oggi se ne parla. E’ un episodio che riguarda il
soprannaturale e che ha sconvolto, a suo tempo, tutta la popolazione
catanzarese, la quale, per la gran parte, ne fu testimone diretta. Il tutto
scaturì da un fatto di sangue avvenuto nel 1936. Il diciannovenne Giuseppe
Veraldi (detto Pepè) viene trovato morto sotto il ponte di Siano (un
viadotto costruito nel 1930, che collega la città al borgo periferico). In
un primo tempo si pensò al suicidio ma , tre anni dopo ,
una ragazza diciassettenne , Maria Talarico , di Siano , passando sul
ponte, venne posseduta dallo spirito del giovane (che si manifestò in lei per 30
giorni) il quale affermò , di essere stato ucciso . Tutte le
dichiarazioni del defunto, fatte tramite la ragazza (che parlava con la
voce del morto) , trovarono riscontro nella realtà e costituirono
le prove per gli innumerevoli testimoni, medici, parenti e amici e
conoscenti, che ciò di cui ella parlava poteva essere a conoscenza solo
del Veraldi. Venne fatto nome e cognome dei quattro assassini e i
fatti che portarono all’omicidio furono descritti con dovizia di
particolari , ma l’autorità giudiziaria non potette procedere poiché ,
sebbene il fenomeno fosse straordinario, non costituiva una prova probante. I
fatti misteriosi legati a questo ponte sono innumerevoli . Esso è
stato reso da subito tristemente noto poiché fu, sin dalla fine della sua
costruzione , la meta preferita di coloro che sceglievano , per vari
motivi , di suicidarsi lanciandosi nel vuoto, ma questo particolare episodio
rimane sempre il più ricordato e raccontato per la sua unicità. “ Il
ponte maledetto ” è tutt’ oggi teatro di fenomeni paranormali
, di cui ho raccolto personalmente alcune testimonianze dirette.
Passarci, e sapere quanta gente ha posto fine tragicamente alla sua vita in
questo luogo, fa venire realmente i brividi… senza contare che vi si
aggirano realmente molti spettri che , periodicamente si rendono
visibili . Nel tentativo di esorcizzare il posto , a tutt’ora non
illuminato , e per tranquillizzare i passanti, è stata posta (dal lato
d’accesso di Catanzaro) un’icona della miracolosa Madonna di Porto , la
quale , con la sua presenza , invita automaticamente alla preghiera per
quelle povere anime in pena. La trasmissione “Misteri”, condotta su RAI 2
da Lorenza Foschini, se ne è occupata largamente , coadiuvata da uno
splendido filmato che ricostruisce visivamente gli eventi , nella
puntata di Lunedì 27 Novembre 1994. Da essa trarrò alcune delle più
recenti testimonianze. Un analogo caso di possessione su sensitivi ,
sempre sul Ponte di Siano , si verificò dieci anni più tardi ; se ne
occupò la stampa e d in particolare il "Giornale d'Italia" del
24/4/1949. I due episodi bastano a dimostrare che la vita non cessa ma si
trasforma con la morte. A sinistra la copertina del libro “
Meraviglie dello spirito umano – strano fenomeno di personalità indotta”
, scritto dal Dott. Giovanni Scambia all’epoca dei fatt i nel
1939 ( Ed. F.A.T.A., Catanzaro, 1939 ) , di cui posseggo una rara copia e
del quale riporterò quasi integralmente il testo, poiché è la fedele e
circostanziata cronaca di ciò che accadde a Siano più di sessant’anni fa
in merito ad un fenomeno rimasto unico come tipologia nella
storia della parapsicologia . Ho tenuto particolarmente a riportare
personalmente questa storia e a scrivere quello di cui sono a conoscenza, poiché
in essa fu coinvolto il mio nonno paterno e la mia famiglia… e da
quanto letto ( nell’unico articolo su internet che riporta il fatto) e da
quanto visto nel filmato della RAI, purtroppo, il suo comportamento può
essere frainteso. Mio nonno, Giuseppe Loprete, uomo onesto e stimato da tutti
(proprietario del locale nel quale il Veraldi sarebbe stato “ubriacato
con il vino drogato” e “picchiato selvaggiamente” ) non fu assolutamente
complice o consapevole dei fatti:
quanto riportato è dovuto
all’amore per la verità ed alla sua memoria!
La possessione spiritica del“Ponte Maledetto” di Siano.
Nel gennaio 1939, in seguito ad un articolo apparso su il «MESSAGGERO», la Società Italiana di Metapsichica presieduta dall'illustre Prof, Cazzamalli, inviava una lettera circolare a tutti i medici di Catanzaro invitandoli a dare maggiori ragguagli su dì un caso di personalità indotta verificatosi in una giovine di Siano. Sapendo che detta Società persegue scopi altamente scientifici ho aderito volentieri alla richiesta e dopo una minuziosa indagine ho potuto redigere la seguente dettagliata relazione: A 3 Km. da Catanzaro sorge la borgata Siano. Congiunge la borgata alla Città un magnifico ponte ad una unica grande arcata, che, nel suo punto centrale, raggiunge l'altezza di 54 metri. Sotto questo ponte la mattina del 13 Febbraio 1936 verso le ore 8 fu rinvenuto il cadavere del giovine Veraldi Giuseppe di anni 19 da Catanzaro, muratore, abitante in Via Baracche. II cadavere aveva addosso un paio di mutandine nere e una calza di cotone al piede sinistro. Gli altri indumenti (impermeabile, giacca, pantaloni ecc.) si trovavano a terra a diversa distanza l'uno dall'altro e a diversa distanza dal cadavere. « II cadavere — così sta scritto negli atti ufficiali — giace bocconi e poggia sull'emitorace sinistro, sulla regione lombare sinistra e sulla mano sinistra dalla parte del polso. II braccio sinistro forma un angolo retto col corpo e la mano sotto il petto. II braccio destro anche esso flesso forma un angolo retto col terreno e poggia sulla mano prona. La testa è rivolta verso destra e aderisce completamente al terreno dalla parte sinistra. Le gambe distese ed i piedi, seguendo la direziono di tutto il cadavere e particolarmente della testa, sono rivolti verso destra e sono disuniti. II cadavere presenta escoriazioni su tutte le parti del corpo. Presenta inoltre frattura della mandibola e di una clavicola ». Il perito del tempo avendo riscontrato che dalla bocca, dal naso e dagli orecchi veniva del sangue ha concluso che la morte era dovuta a frattura della base cranica. Risulta dagli atti che il Veraldi la sera precedente alla sua morte si è intrattenuto nella bettola di M.C. in via Baracche con i nominati F.G., M.A., F.D. e il fratellastro S.C.. Quivi ha bevuto del vino e verso le ore 19, sentendosi male, si avviò verso Pontegrande, altra borgata di Catanzaro. Risulta pure dagli atti che la mattina del 13 febbraio 1936 verso le ore 5 e cioè tre ore prima del rinvenimento del suo cadavere, il Veraldi è stato visto passeggiare al Baraccone dai nominati F.G. e S.M.. L'Autorità Giudiziaria dopo accurate indagini, archiviò l’incarto confermando nell'istruttoria il suicidio, essendo emersi fatti tali da non mettere alcun dubbio che il Veraldi si sia troncato la vita per dispiaceri amorosi. Le conclusioni dell'Autorità Giudiziaria non appagarono i familiari del morto, ne una buona parte del popolo, e ciò perché rifuggiva dal loro pensiero l'idea che un uomo, che si slancia da 54 metri di altezza, possa riportare delle semplici fratture alla testa. Il modo come giaceva il cadavere e le escoriazioni su tutte le parti del corpo - erano argomento di prova che il Veraldi fosse stato ucciso e poi trasportato sotto il ponte con l'intento di occultare il delitto. Nella borgata Siano, a circa 800 metri dal ponte, vive in una casa colonica la famiglia Talarico: Maria Talarico e non Maria Critelli (come i giornali hanno erroneamente pubblicato) è la secondogenita di sei figli, tutti viventi e sani. Ha 17 anni di età, ha goduto e gode ottima salute. Nell'infanzia soltanto ha sofferto morbillo. • E' alta m. 1,50 e pesa Kg. 52. Stato generale buono. Organi interni sani. Mestruazioni regolari. Presenta leggera ipertrofia del lobo destro della tiroide. Presenta inoltre dermografismo pronto, rosso e persistente oltre i 15 m', riflessi pupillari bene reagenti alla luce e all'accomodazione, riflessi congiuntivali e faringei leggermente torbidi, riflessi tendinei specie i patellari ed achilei vivaci, tremore delle palpebre ad occhi chiusi e mani protese. Campo visivo ristretto concentrico anche per il rosso. Nessuna alterazione dell'equilibrio. Nessuna alterazione della sensibilità se si eccettua una lieve iperestesia. Ha occhi vivaci e sguardo penetrante. Capelli neri ondulati, colorito bruno, e un dolce sorriso sulle labbra. E' benvoluta da tutti. E’ intelligente, assennata, mite. Attende di buon grado ai lavori di casa e di campagna. Lavora e canta. Sa leggere e scrivere avendo fatto la terza elementare. E' fidanzata da diversi anni e nulla ha turbato i sogni della sua giovine età, tranne l'episodio di cui parleremo e che ha scosso non poco il suo sistema nervoso per cui si legge ancora nel suo volto un senso di sbigottimento e di amarezza. Non ha mai fumato. Non è dedita al vino. Beve a tavola qualche bicchiere di vino quando le condizioni finanziarie della famiglia lo permettono. Maria non ha conosciuto mai la famiglia Veraldi, ne la famiglia Veraldi ha conosciuto mai la famiglia Talarico. Quando nel 1936 è stato rinvenuto il cadavere del Veraldi Maria aveva appena 14 anni ed è andata, come tutta la gente di Siano, a vedere il morto da una collina situata sul lato orientale del ponte. Ragazza spensierata non ha riportato impressione alcuna. Della fine del Veraldi non si è mai data pensiero, ne in casa sua dopo i primi giorni see ne è mai più parlato. Non h mai saputo con chi il Veraldi la sera avanti della sua morte si sia intrattenuto. Andando e venendo dal ponte non le è mai balenata l'idea del morto. Non lo ha mai sognato. Queste affermazioni debbono ritenersi sincere sia perché Maria nessuna ragione aveva di dire il contrario, sia perché una inesperta ed ingenua contadinella non poteva capire il perché di queste mie insistenze. D'altra parte non avendo l'Autorità giudiziaria proceduto ad alcun fermo, la curiosità e le congetture popolari dopo i primi giorni si spensero e del Veraldi non se ne parlò più. Il giorno 5 gennaio del 1939 Maria, in compagnia della nonna, si è recata a Catanzaro per vedere la mamma che trovavasi alla Scuola Agraria. Verso le 11, sempre in compagnia della nonna, faceva ritorno a Siano. La nonna con l'aiuto di una tale G.F., che in quel momento per fortuna si trovava a passare sul ponte, sollevarono la giovane e la condussero a casa reggendola per le braccia. Quivi Maria incominciò a dibattersi sul letto chiedendo a squarciagola la madre. E' stata chiamata la madre che come abbiamo detto si trovava alla Scuola Agraria. Venuta la madre. Maria disse: «Voi non siete mia madre, voi siete la padrona di questa casa, mia madre e alle Baracche e si chiama Caterina. Io sono Pepè. Andate e dite che venga subito a vedere il suo figlio disgraziato». Narrano i presenti che la voce non era quella di Maria, ma una voce grossa dal timbro di uomo. Sparsasi in un baleno la notizia che la giovane era stata invasa dallo spirito, da ogni parte fu un accorrere di gente verso la casa dei Talarico. Consapevole che in tali occasioni la fantasia popolare si sbizzarrisce ed altera in tutto i fatti e le circostanze, ho eseguito una rigorosa inchiesta, tenendomi anche a contatto con la R. Questura e con i RR. Carabinieri, aventi giurisdizione su Siano. Ho interrogato prima nel mio studio i testimoni oculari. Mi sono recato poi per tre volte a Siano sia per visitare la giovine Maria, sia per controllare meglio i fatti. In queste indagini ho voluto sempre dei colleghi al mio fianco. I colleghi che gentilmente mi accompagnarono sono: CATALANO Vincenzo, CASALE, CARELLI, MANZI, Direttore della Scuola Ostetrica di Catanzaro, FRAGOLA, Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Girifalco e PERRI oculista. La crisi di Maria è durata circa una giornata e mezza e durante questa crisi, ella, quasi fosse il giovine Veraldi, ci fa passare come in un film cinematografico tutti i vari episodi che precedettero la di lui morte, specificando dati e circostanze ed affermando che non si è suicidato: ma che è stato ucciso. La scena è viva e palpitante e si svolge con una logica precisa e serrata. Date le insistenze di Maria a volere vedere mamma Caterina, la madre stessa della giovine senza perdere tempo si recò alle Baracche a trovarla, sebbene non la conoscesse. Non la trovò in casa e difilata tornò a Siano. Impaziente di vedere la madre, Maria allora invia un apposito messaggero, un tale G.G., a cui consegna un biglietto. Il biglietto è scritto a matita e porta queste testuali parole: «Cara mamma, se volete vedermi io sono il vostro figlio disgraziato». Il biglietto è ora in mano del Brigadiere dei RR. CC. Salvatore Malorgio, comandante la Stazione di Pontegrande. Confrontata la calligrafia del morto con quella di Maria, la calligrafia risulta identica a quella di Maria. La sera del 5 Gennaio, verso le ore 20, Maria scelse tra la folla quattro uomini e volle che giocassero a carte alla briscola. Chiese pure del vino. E' stato preparato un tavolo ed i quattro uomini si sono messi a giocare. Essi venivano chiamati da Maria non con i loro nomi; ma con i nomi di Vincenzo, Antonio, Francesco, Giovanni. I quattro uomini giocavano e Maria assisteva fumando sigarette indigene. Ad ogni giro di carte Maria beveva quattro bicchieri di vino. « Come voi — diceva Maria. — mi avete ubriacato quella sera, così dovete farlo questa sera, mettendomi nel vino zucchero, sale, papavero, come avete fatto allora ». Maria stessa ha messo nel vino zucchero e sale. «Ricordate — ha ripreso a dire Maria — ricordate quella sera che mi avete avvelenato U vino, il bicchiere mi si ruppe ». A così dire il fondo del bicchiere si stacca e va a terra. Avuto un'altro bicchiere Maria continuò a bere. Bevve in tutto quattro litri e mezzo di vino e fumò molte sigarette. Dopo circa un'ora vomitò e incominciò a gridare: « Vincenzo, Antonio, lasciatemi, non mi battete più. Aiuto... Aiuto... mi stanno trascinando sotto il ponte... » La notte del 5 Maria stette sempre sveglia baciando il ritratto della sorella del morto. Mamma Caterina delle Baracche che la sera del 5 non ha potuto recarsi a Siano, vi andò la mattina del giorno appresso, vi arrivò verso le sette. « Mia madre — disse Maria — in questo momento si è partita dalle Baracche ». Stette pochi minuti in silenzio, poi ripigliò; « mia madre è arrivata al ponte ». Dopo pochi minuti:« mia madre sta per arrivare ». Si alzò dalla sedia e si mise sulla porta ad attenderla. Ad un tratto esclamò: « mia madre! ». Si slanciò di corsa, fece oltre cento metri di strada facendosi largo fra la folla, si gettò al collo di mamma Caterina, baciandola e chiamandola col dolce e caro nome di mamma. Rientrata in casa Maria la fece sedere ed ella si sedette sulle sue ginocchia. «Mamma, mamma mia — diceva — sono tre anni che non ti vedo». «Come ti hanno ucciso, figlio mio? Chi ti ha ucciso? ». «Vincenzo, Antonio, Francesco. Giovanni mi hanno ucciso. Siamo stati alla bettola di GIOSE, mi hanno fatto bere una gran quantità di vino e mi hanno ubriacato. Nel vino mi hanno messo delle misture. Siamo usciti e siamo andati Fuori le Porte da Raffaeluzzo e poi siamo ritornati alle Baracche. Di poi mi hanno condotto verso la Caserma dei Cappuccini. Io ero in mezzo a Vincenzo e Antonio i quali mi portavano a braccetto, gli altri due mi venivano dietro. Arrivati nelle vicinanze della Caserma dei Cappuccini dove vi è un muro alto e ove vi sono pure tre fontanelle, Vincenzo e Antonio mi hanno dato un calcio l'uno e mi hanno gettato sotto il muro. Sotto il muro mi raggiunsero scendendo per un sentiero. Giovanni mi ha preso per i capelli, Vincenzo mi ha tirato un pugno all'occhio, Antonio mi ha rotto la mandibola con un colpo di pietra. Mi hanno trascinato fino al canneto. Quivi Vincenzo mi tolse la giubba, Antonio i pantaloni, Francesco la camicia, Giovanni la maglietta e una calza. Mi trasportarono poi sotto il ponte: Vincenzo mi ha colpito con un ferro al braccio e al costato; mi ha rotto poi il polso destro e me l'ha affondato nell'arena. Sotto il ponte gettarono i miei vestiti e mi adagiarono con la testa sopra una pietra, in modo da fare pensare che io ero pazzo. Ma io mamma, non ero pazzo da gettarmi dal ponte». «Mi hai chiamato, figlio mio; quando ti martorizzavano?». «Ti ho chiamato, o mamma, ma tutto fu inutile. Loro erano quattro e mi avevano fatto bere 24 bicchieri di vino ». «E nessuna giustizia vi è stata per te, figlio mio!». «Uno di quelli mamma che mi uccisero, è morto all'Ospedale» (questi è Antonio che è morto nel settembre u.s. per insufficienza cardiaca ed anasarca generale). «Ed ha rifiutato i sacramenti» — disse la sorella del morto. «No — rispose Maria — si e confessato... ma... Un altro, mamma, è in Africa Orientale e l'hanno sfregiato» (Questi è Vincenzo, il quale poco tempo dopo la morte del Veraldi è partito come muratore per l'Africa Orientale, ove trovasi tuttora). «Un altro, mamma, verrà tra poco» e vi andò infatti Francesco. Appena entra, Maria lo fissa negli occhi, e alle domande insistenti di Francesco. Maria non risponde; fa segni di si e di no con la testa. Dopo tante insistenze (afferma Francesco che è venuto nel mio studio a deporre) Maria parlò e disse: «padrone di casa datemi del vino». Maria riempie il bicchiere e lo porge a Francesco. Francesco l'assaggia e lo restituisce. «Bevilo tutto — disse Maria — come l'ho bevuto io quella sera!». Francesco beve tutto il vino. «Ed ora - disse Maria - alzati e vattene!» Francesco si alza, fa finta di andarsene e si nasconde dietro la porta. Maria disse: «Francesco è ancora qua». Lascia la sedia, si avvicina alla porta e grida «Francesco vattene». E Francesco se ne và. Dicono quelli che sono stati presenti all'incontro di Francesco con Maria che questa non solo lo guardò in malo modo; ma fece segni di agitazione contorcendosi le mani e che quando Francesco se ne andò, Maria stette muta per circa venti minuti e poi disse: «Francesco trovasi in questo momento in casa del fratello Giovanni. II fratello gli sta dicendo: “sciocco perché sei andato?”».
TESTIMONIANZE
SITA’ GUGLIELMO (ex vice brigadiere daziario).
Invitato, viene nel mio studio, mi riferisce che spinto dalla curiosità anche lui volle andare a Siano la mattina del 6 gennaio verso le ore 9. Vi trovò molta gente ma a spintoni si è fatto avanti. Non appena Maria lo vide: «lasciate passare — disse — che è venuto il brigadiere». Sità: “dimmi sotto quale casa ti sei fermato quella sera?”. Maria non rispose, ma scrisse sopra un pezzo di carta: Adelina. (Adelina, ci spiega Sità, è la moglie di Vincenzo, sotto la cui casa l'ha visto fermo...) Sità: “e dove mi hai conosciuto?” «Voi - disse Maria - siete il Brigadiere Sità che la sera prima della mia morte eravate al balcone e fumavate la pipa. Io vi dissi buona sera». Sità: “dimmi i nomi dei giovani che quella sera ti seguivano”. Maria non rispose; ma su un pezzo di carta scrisse Vincenzo, Antonio, Francesco. (Questa scrittura, esaminata da un perito calligrafo, rassomigliava alla calligrafia del morto). Sità: “Pepè, vuoi mangiare qualche cosa?”. Maria: «Non posso, ho i denti e la mandibola rotta ». Il Brigadiere Sità ci dice che ha voluto osservare la mandibola e ci assicura di aver sentito uno scricchiolio della branca orizzontale destra. Ha voluto toccare i denti ed ebbe l'impressione che gli restassero tra le mani, talmente si muovevano. «Sono andato incredulo - ci dice Sità - e sono ritornato atterrito!»
VERALDI RAFFAELE (fratello del morto).
Appena Maria lo vede gli va incontro, gli stringe la mano e gli dice: «Raffaele come stai? E' molto tempo che non ti vedo. Avevo tanto desiderio di vederti».
VERALDI GIOVANNI (altro fratello del morto).
Maria lo guarda e ad insistenza della folla di rivolgergli qualche parola non gli parla dicendo che non rispetta la mamma. Giovanni realmente maltrattava spesso la madre.
LOPRETE GIUSEPPE (è il proprietario del locale che gestisce sotto il nome della moglie Teresa Pugliese).
Il racconto di quello che stava accadendo a Siano era stato immediatamente riportato, prima di tutto, nei quartieri d’appartenenza delle persone citate dallo “spirito” e coinvolte direttamente (per parentela, amicizia o conoscenza), “Il Baraccone” e “Le Baracche” erano inoltre due quartieri adiacenti e i fatti si erano svolti tutti in quella zona. Giuseppe Loprete (soprannominato GIOSE - o JOSY – poiché, emigrato, aveva vissuto negli Stati Uniti e conservato il vezzeggiativo americano, con il quale era da tutti conosciuto e stimato) aveva visto crescere il giovane Pepè Veraldi e, appena fu a conoscenza di ciò che si diceva della giovinetta che “aveva preso lo spirito”, mosso dalla curiosità, volle, il giorno 6, recarsi a Siano in compagnia della sua figlia più giovane Elena, e vi si recò a bordo del suo calesse. Il Loprete era mosso dal profondo desiderio che, se veramente lo spirito del giovane Veraldi, fosse tornato dall’aldilà per chiarire ciò che gli era realmente accaduto quel fatale giorno, dichiarasse palesemente alla comunità la sua assoluta estraneità, in qualità di proprietario del locale dove lo avevano fatto ubriacare, ai fatti ed in particolare ci teneva che si sapesse che egli era totalmente inconsapevole delle intenzioni dei giovani che lo avevano attirato nel tranello e che avevano poi perpetrato quel barbaro omicidio. Ancora prima che il Loprete e sua figlia attraversassero il ponte di Siano, Maria disse: “Stà arrivando GIOSE con la figlia sul suo calesse”. Di lì a poco i due arrivarono in casa Talarico. Maria appena lo vide, lo fissò negli occhi: «Voi siete GIOSE — gli disse — Venite e ditemi perché il vino me lo avete dato nella “cannata”» (La “cannata” è un vaso di terracotta). GIOSE: “Il vino io l'ho portato nella bottiglia”. Maria: «Lo so, la “cannata” è venuta da fuori» (Questa affermazione scagionava completamente GIOSE da ogni sospetto che avesse drogato lui il vino!). Ma GIOSE, a conferma che l’entità che parlava fosse realmente Pepè, chiese: “Quel vino che hai preso qualche sera avanti dove l'hai portato?”. Maria: «L'ho portato ad una casa che non posso dire». GIOSE: «E me lo hai pagato?». Maria: «No». Risulta vero che il vino è stato preso e non è stato pagato (di questo fatto, gli unici ad esserne a conoscenza erano GIOSE e Pepè, oltre ai destinatari del vino). «Conosci questa ragazza?» (disse un amico di GIOSE). Maria: «Si che la conosco, è la figlia di GIOSE» (in effetti, la giovane era Elena, sua figlia, che quella mattina aveva voluto accompagnare il padre).
FRANCESCO LOPRETE (figlio di GIOSE e amico di Pepè)
Francesco Loprete, conosciuto da tutti come “Ciccio”, non credeva alla possessione spiritica e ad alcun fatto soprannaturale, per cui andò personalmente a vedere cosa stesse accadendo a Siano, con la ferma intenzione di mettere alla prova “lo spirito”. Egli conosceva molto bene Pepè, per cui quando vide Maria le chiese subito: “Se tu sei Pepè, sai dirmi chi sono io?”. Maria gli rispose con un sorriso: “Tu sei Ciccio, il figlio di GIOSE, e vuoi la prova che io sia Pepè Veraldi e che sia tornato dall’aldilà. Fammi una domanda di cui nemmeno tu conosci la risposta e che tutti possano poi verificare”. Francesco allora gli chiese: “Dimmi qual è il numero di serie del mio orologio” (neanche lui lo conosceva, poiché lo aveva comprato da poco). Maria diede il numero completo di serie. Il numero fu verificato seduta stante. Corrispondeva esattamente! Inutile dire che Francesco, impressionato, credendo ormai alla ragazza, chiese di baciare ed abbracciare affettuosamente l’amico sfortunato.
FABIANO LUIGI.
Fabiano: «Mi conosci?». Maria: «Altro che ti conosco. Tu sei Fabiano. Sai che vorrei da te? Un panino imbottito con mortadella che mangiavamo sempre quando eravamo insieme». Fabiano: «Vado subito a prenderlo a Catanzaro». Maria: «Se vai a Catanzaro portami anche una bottiglia di brillantina». II Fabiano si reca a Catanzaro a comprare la brillantina e il panino imbottito e si incontra con un amico chiamato “il Biondo”, sotto l'Ospedale Militare. Nel momento stesso che i due si incontravano e si intrattenevano a parlare sotto l'Ospedale Militare, Maria ha detto: «In questo momento Fabiano si è incontrato con il Biondo e parlano di me». Fabiano intanto ritorna da Catanzaro e porta il panino e la brillantina. Maria divide il panino fra i famigliari del morto e ne da anche un pezzetto a Fabiano, a cui consegna anche una mezza sigaretta dicendo: «Non la fumare, tienila per mio ricordo». Il Fabiano dichiara che realmente egli spesso mangiava con il Veraldi i panini imbottiti; e che il Veraldi portava sempre in tasca una bottiglia di brillantina, e che realmente in quel giorno ed in quell'ora si era incontrato con “il Biondo” sotto l'Ospedale Militare e che nelle mosse di Maria riconosceva le mosse del Veraldi.
MANCUSO SALVATORE fu TOMMASO (pittore di Pontegrande).
Si è recato a Siano con cinque amici. Mancuso: «Ci conosci?». Maria: «Si». Mancuso: «Particolarmente chi conosci?». Maria: «Te». Maria si è alzata dalla sedia e gli ha stretto la mano. Maria: «Date del vino!». Uno dei cinque si è nascosto e non ha bevuto. Alcuni dei presenti domandarono: «Hanno bevuto tutti?». Maria: «No». Mancuso che aveva in tasca una fotografia di sua sorella morta dice: «Conosci chi è questa?». Maria: «Si, è tua sorella morta». Mancuso dichiara che la sera del 12 febbraio 1936 è stato alla bottega di GIOSE fino alle 8,30 con Veraldi. Poi sono usciti insieme e si accompagnarono fino alla fontana del “Baraccone”. Quivi giunto ha esortato il Veraldi di ritornare a casa perché era tardi ed anche perché il Brigadiere dei Reali Carabinieri Chiarella, li aveva invitati a ritirarsi. Veraldi non ha voluto ritirarsi perché voleva cantare la canzone: «Non ti scordar di me». «Non ti scordar di me» era la canzone che il giovine Veraldi amava di cantare.
DELL'APA ANTONIO fu FRANCESCO (operaio amico di Pepè)
Dell'Apa:“mi conosci?”.Maria gli stringe la mano e dice: «Tu sei Totò dell'Apa». Dell'Apa: “Ti ricordi dove abbiamo lavorato assieme?”. Maria: «Alla tranvia quando è venuta l'alluvione» (l'alluvione a Catanzaro è avvenuto nel novembre del 1935 e realmente il Dell'Apa ha lavorato con il Veraldi alla Tranvia).
Tralasciamo di enumerare altre dichiarazioni che testimoniano lo stato ultra normale di Maria e la sua grande facoltà di conoscere persone e di ricordare particolari che solo al morto erano noti, e veniamo all'ultimo atto del dramma. La madre della giovine preoccupata dello stato della figlia, stanca del continuo riversarsi in casa di tanta gente, esortò mamma Caterina di ritornare alle Baracche e di pregare Pepè a lasciare la ragazza e non farle alcun male. Mamma Caterina: «Pepè, figlio mio, me ne vado che è tardi. Ti raccomando di lasciare al più presto questa ragazza e di non farle alcun male». Maria: «Non ti incaricare, mamma, farò quello che tu dici. Io ti voglio tanto bene». Andata via mamma Caterina, Maria si è lamentata che le faceva male la gamba destra. La sorella del morto che è stata sempre accanto a Maria le disse: «Che hai alla gamba?». Maria: «Ho dolore per un colpo che mi hanno dato. Adesso voglio andare al ponte e raccogliermi i panni». «I panni - disse la sorella - non ci sono più, li ha sequestrati la Questura». Maria: «Debbo andare assolutamente e con me debbono venire quattro uomini». Scelse anche questa volta tra la folla quattro uomini e disse di seguirla. Di filata si avviò verso il ponte. Camminava col passo di un uomo. Arrivata al ponte con un fazzoletto ha fatto segno indicando la Caserma dei Cappuccini, il muro, il canneto, la vallata da cui i quattro avrebbero trascinato il Veraldi. Poi per una ripida scoscesa ha voluto scendere sotto il ponte, seguita dai quattro uomini e da molta gente. La madre della giovine vedendola saltare per quei dirupi incominciò a gridare: «per carità di Dio non la fate scendere! Si ammazza». Maria: «E a voi che importa? Io debbo andare!». Appena arrivata sul letto del torrente Maria si toglie il cappotto e lo getta a terra. Del pari getta a terra in diverse direzioni e a diversa distanza tre fazzoletti; poi di corsa, come chi voglia tuffarsi in acqua, si butta distesa sulla terra nel punto stesso dove è stato rinvenuto il cadavere di Veraldi. Nell'atto di buttarsi a terra le sfugge la scarpa dal piede destro. La scarpa è stata trovata abbottonata. Maria chiede una pietra ed avutala si poggia con la testa e assume la stessa posizione del cadavere del Veraldi. Resta in quella posizione per pochi minuti; poi come si svegliasse da un lungo sonno si alza e stralunata domanda come si trovasse in quel luogo e cosa facesse tanta gente. Conosce allora la propria madre, il fidanzato, i parenti e la gente di Siano che durante la crisi non ha conosciuto. Sorreggendola i parenti cercano farla salire dalla parte del ponte da cui era discesa; ma non poteva andare avanti,perciò è stato necessario farla risalire dalla parte opposta del ponte. Maria non ricorda più nulla di quello che è accaduto. Non vuoi farsi vedere da alcuno e quando siamo andati a trovarla si nascose. Per farsi vedere ci volle del bello e del buono. Dopo parecchie insistenze dei famigliari acconsentì sottoporsi alla nostra visita e di farsi misurare il campo visivo. A nostra richiesta ci ha lasciato la seguente dichiarazione:
« DI TUTTO QUELLO CHE E' AVVENUTO IO NON RICORDO NULLA.
NON HO SOGNATO MAI IL GIOVINE TROVATO MORTO SOTTO IL PONTE
NE' HO SENTITO PARLARE MAI DI LUI.
IO HO DICIASSETTE ANNI E SONO STATA SEMPRE BENE ».
SIANO DI CATANZARO 9-2-1939 - A. XVII
TALARICO MARIA
Testimonianze tratte dalla trasmissione “MISTERI” (RAI 2) del 27.11.1994
Avv. Mario Pittelli:
“Nel febbraio del 1936 un giovane, tale Giuseppe Veraldi, di circa 20 anni fu trovato cadavere nella vallata del viadotto di Siano. Furono effettuati immediatamente gli accertamenti da parte della polizia e dei carabinieri e si concluse che si trattava di suicidio. Del caso non se ne parlò più. A distanza di circa tre anni e precisamente nel gennaio 1939 si trovò a passare per caso sullo stesso viadotto una giovane diciassettenne tale Maria Talarico la quale improvvisamente fu invasa dagli spiriti, cadde in trance e iniziò a fare delle dichiarazioni relativamente a quel caso che era stato archiviato come suicidio cioè del caso del giovane Giuseppe Veraldi. Non era vero, secondo la Talarico, che parlava con l’identica voce di Giuseppe Veraldi, non era vero che il Veraldi si era buttato dal ponte di Siano, bensì era stato portato nella valle sottostante il viadotto di Siano ed era già stato ucciso dai tre giovani. Tanto è vero che nell’immediatezza dell’autopsia effettuata sul corpo del giovane Veraldi non furono rintracciate lesioni collegate ad un’eventuale caduta dal viadotto bensì lesioni da corpo contundente e precisamente la lesione grave riportata alla nuca e la lesione ancora più grave riportata alla mandibola. Ma quello che è più importante è che quando la Talarico fu invitata a togliersi tutti gli indumenti che portava sul suo corpo, gli indumenti sparsi dalla stessa furono ritrovati negli stessi punti dove erano stati trovati i capi del Giuseppe Veraldi nell’immediatezza del rinvenimento del cadavere. Perfino la scarpa, che fu ritrovata a distanza di 20 metri dal corpo del morto, era alla stessa distanza nella quale fu lasciata quella della ragazza. Trenta giorni durò questo stato di trance, e poi svegliatasi non ricordava più nulla di quello che le era successo. La Talarico descrisse circostanze tali che indussero polizia e carabinieri ad effettuare nuove indagini e nuovi accertamenti. Da queste indagini e da questi accertamenti, che furono in parte confermate dalla Talarico, si accertò, da parte della polizia, che si trattava di omicidio e non di suicidio. Da questi accertamenti non si potette chiedere il rinvio degli indiziati al giudizio della Corte d’Assise, perché le prove, si ritennero insufficienti e non tali da potere consentire un rinvio alla Corte d’Assise di Catanzaro. Nello stesso tempo la città di Catanzaro si divise in due, specialmente nell’ambiente giudiziario degli avvocati. Alcuni sostenevano trattarsi di omicidio, altri propendevano per la prima tesi cioè per il suicidio. Dopo poco tempo, però, del fatto non se ne parlò più e si parlò semplicemente di questo “maledetto” ponte di Siano, viadotto di Siano, che portava sventura a tutti e specialmente a quelli che avevano riportato delusioni amorose”.
Dott. Domenico Teti:
“Lo ricordo perché è stato un caso particolare, di una certa importanza che è capitato nel periodo in cui io ero stato richiamato alle armi dopo la guerra d’Africa, all’Ospedale Militare, e andai lì con uno degli altri due medici dell’Ospedale Militare, il prof. Scambia, che era radiologo. Allora, come medici, eravamo in pochi e quindi il caso ci interessava sia come curiosità in sé che come caso clinico. Come fatto curioso (riscontrato sul corpo della Talarico dopo la possessione spiritica) era da rilevare la frattura, che riproduceva esattamente quella che aveva quel poveretto che si era ammazzato sotto quel pilone del ponte”.
Maria Talarico (“la posseduta”) :
“Hanno detto che si era buttato uno dal ponte e siamo andati sulla collina in tante persone ma vedevamo persone sotto il ponte, non è che si vedeva il morto. Dicevano che si era ammazzato, la gente era di due pareri opposti, che diceva si e chi diceva no. Noi non conoscevamo nessuno di queste persone che parlavano. Io ero piccolina (Maria al tempo aveva 14 anni n.d.a.) e non potevo avere la malizia di dire si o no, lo diceva la gente. (In riferimento ai casi del 5 gennaio la Malarico continua dicendo…) Sono passate delle persone e mi hanno portata a casa mia. Quando sono arrivata a casa ho cominciato a dire: - Questa non è casa mia! - E mi rispondevano: - Come non è casa tua? Non vedi la tua mamma? – E io rispondevo: - No! Questa non è la mia mamma! La mia mamma è alle Baracche! – Mi dicevano che avevo il timbro da uomo, dicevano che fumavo, io non ho fumato mai, in vita mia non ho mai fumato una sigaretta. Dicevano che bevevo vino io un solo bicchiere a tavola, qualche volta. Quando ho bevuto quel bicchiere di vino dicono che si è rotto il bicchiere ed è cascato per terra, come era successo a quello che è morto. Lo dicevano le persone ma io non ricordo. Quando mi sono girata e ho visto tutte quelle persone, ho detto: - Ma che cosa sto facendo qua? – Mi risposero: - No, non ti spaventare. Siamo venuti da una festa, non avere paura – Sono tornata a casa, mi sono coricata e ho dormito fino alla mattina dopo”.
Albino Talarico (figlio di Maria, la “posseduta”) :
“Per quanto possa sembrare strano, questa storia non ha inciso più di tanto nella mia famiglia e, per quanto straordinaria, non ha prodotto nessun effetto per una ragione semplicissima: essa è stata così eclatante nella vita di mia madre ( nel 1939 ancora molto giovane e fidanzata con il mio papà) che fu quasi relegata nel dimenticatoio e nell’ambito della famiglia. Per una serie di motivi facilmente comprensibili, primo per i tempi che vivevamo, in tutti i termini, ambientali e storici, poi per l’ambientazione propria del luogo dove il fatto si è svolto ed anche per la natura stessa dell’evento, che in realtà, nel momento in cui succede, denuncia una verità che sovverte addirittura un procedimento giudiziario, con tutta la delicatezza che questo comporta. Fatto salvo quello che abbiamo detto prima, in realtà nella mia famiglia subentra questo fatto fin da quando io comincio ad avere coscienza. Quello che mi meravigliava però era che, quando ne parlavo con estranei, quasi tutti conoscevano questa storia. Allora ho voluto approfondire, tanto più che ho cominciato a scoprire delle pubblicazioni di varie epoche e di vari autori, per cui la curiosità divenne totale, soprattutto quando carpii il messaggio di tutto questo evento straordinario, che non aveva e non ha simili. Io, comunque, non avevo mai letto nulla del genere. Mi piacque, quindi, perorare questa causa, per riuscire, un domani, a portare questo fatto all’attenzione di tutti, dato che mi sembra giusto ed interessante per le riflessioni alle quali ci induce”.