Magia

Accanto alla tradizione colta, la magia era praticata dai ceti rurali secondo quelle che erano le forme più antiche di stregoneria; non furono pochi quegli intellettuali formati sui valori dell'illuminismo francese che credettero necessario liberare il popolo dalle proprie superstizioni. Quando le truppe napoleoniche occuparono la Calabria, i francesi realizzarono un minuzioso censimento nel quale registrarono anche le forme di magia popolare, la medicina praticata nelle campagne e gli usi considerati più barbari e arretrati. Ma se il patrimonio magico ed esoterico della Calabria nelle sue forme popolari era considerato incivile e arcaico, nei suoi aspetti più antichi e colti, derivati direttamente dal pensiero pitagorico, continuò ad avere una forte influenza fra gli intellettuali. Il mondo popolare calabrese ha ereditato le antiche forme precristiane attraverso le quali la comunità scandiva i cicli fondamentali definiti dal mutare delle stagioni e dagli eventi propri della vita di ogni uomo. Anche la sensibilità religiosa si è andata a configurare attraverso molteplici apporti, primo fra tutti quello del mondo magnogreco, mutuando elementi culturali assai differenti e legandoli ai momenti essenziali del ciclo vitale della comunità. Fra i riti della Chiesa nelle sue celebrazioni liturgiche non mancano i momenti in cui il mondo popolare si appropria di un intero apparato di simboli, utilizzandolo per esprimere antiche esigenze vicine alla vita del popolo; i tempi della natura, i cicli agrari legati alla semina e al raccolto, lo svolgersi delle stagioni, gli equilibri cosmici di solstizi ed equinozi, lo svolgersi della vita degli individui, dalla nascita alla morte, hanno preso nuove forme e nuovi linguaggi attraverso la religione cristiana, ma le esigenze rituali sono rimaste invariate per secoli. La cultura del popolo calabrese, alimentata dal pensiero greco, ma nutrita dall’attaccamento alla terra dei gruppi indigeni, raggiunta da sollecitazioni diverse portate da etnie nuove, percorsa da intellettuali isolati, ma pieni di carisma, di intransigenza, di rigore, sembra essere fatta da continue opposizioni che si fronteggiano per poi ricongiungersi magicamente.

Il tempo del solstizio d'inverno

Come i Latini ricordavano la presenza nel Lazio di Saturno, dio dell'agricoltura, festeggiandolo nei Saturnali nel solstizio d'inverno, così i contadini calabresi hanno accolto le festività della fede cristiana mantenendo forme rituali provenienti dal mondo classico. Anche le antiche Sigillarie, sacre a Giano, l'antico dio italico del Sole, e le Agonalia, festività celebrate nei primi giorni del mese di gennaio e con forti connotazioni orgiastiche, hanno lasciato un segno nel mondo contadino. Saturno e Giano sono le divinità dell'età dell'oro, quando secondo le leggende la terra produceva spontaneamente ogni cosa, nei fiumi scorreva latte, i tronchi degli alberi stillavano miele, gli animali non temevano gli esseri umani. Per un popolo costretto a strappare con grande fatica i doni della terra, i momenti festivi del solstizio d'inverno rappresentavano l'occasione per ribadire il legame con la divinità, proiettando in una visione di dono e di festa le speranze per i successivi raccolti.  Durante il Natale, nelle famiglie contadine si consacrava il fuoco e si benedicevano le mense: in alcuni paesi si usava lavorare pani rituali a forma di croce e di corona, a volte a forma di animali come gli antichi pani usati nei sacrifici. La notte di Natale è la notte della magia, della trasformazione, la notte in cui si possono trasferire le parole delle formule magiche, degli scongiuri usati contro il malocchio. Nel villaggio di Grimaldi alla mezzanotte di Natale veniva attinta alla fontana l'acqua, capace di allontanare qualunque male e di portare ricchezza e felicità, tanto che le donne che vi si recavano a quell'ora dovevano far finta di non riconoscersi e si coprivano d'un panno nero senza proferire parola con alcuno. Se queste prescrizioni rituali non erano ottemperate, l’acqua muta, questo è il nome che si dava all'acqua magica di Natale, perdeva ogni potere. Ogni famiglia contadina non toglie le vivande dalla mensa della vigilia di Natale, credendo che dopo mezzanotte scenda la Madonna col Bambino, mangi il cibo sulla tavola e asciughi al fuoco i pannolini di Gesù. La notte del solstizio è una notte magica perché le divinità scendono sulla terra, ma i mortali non possono vederle, altrimenti correrebbero dei rischi terribili, come l'indovino Tiresia, divenuto cieco dopo aver scorto Atena nel bagno. Un'altra credenza di origine antichissima è quella che vuole che gli animali, una volta l’anno, abbiano il dono della parola. In alcuni paesi si crede che ciò avvenga la notte dell’Epifania, tanto che contadini e pastori danno da mangiare in abbondanza ai loro animali, temendo che essi, una volta in grado di parlare, possano accusare i loro padroni di essere avari.

La sagra della primavera

Le durezze della stagione invernale debbono essere dimenticate e scacciate attraverso momenti scanditi da rituali precisi. La notte della Candelora, il 2 febbraio, si credeva che un orso o un lupo si aggirasse vicino i villaggi: in alcuni paesi si credeva che quest’essere temibile fosse un vecchio dalla barba ispida e folta, vestito di pelli, pronto ad afferrare con le sue lunghe braccia i bambini per divorarli. È il ricordo del Mamurio Veturio dei Romani, simbolo dell'inverno, un vecchio coperto di pelli che nella vigilia delle Idi di marzo veniva scacciato fuori dalle mura di Roma. Secondo la leggenda l'essere mostruoso della Candelora si aggira nella notte intorno alle case dicendo «O fora o non fora, quaranta juorni ci haidi ancora”(fuori o non fuori, ho ancora quaranta giorni). Dal giorno della Candelora alla fine di marzo, sommando i quattordici giorni sino alle Idi, sono appunto quaranta i giorni che restano ancora all'inverno prima di essere scacciato definitivamente dalla primavera. Nei paesi di Aprigliano, di San Demetrio, di Frascineto, il mese di marzo cominciava con la cacciata notturna delle streghe al suono di campanacci che la gente agitava gridando «E’ venutu marzu» ( è venuto marzo); il rituale della cacciata delle streghe in alcuni paesi veniva ripetuto il primo venerdì di ogni mese, credendo che questo fosse il giorno in cui gli spiriti malefici gettavano il malocchio sugli uomini. Sugli antichi riti precristiani legati alla primavera si innesta la tradizione cristiana della Quaresima, ma in coincidenza con la festività di San Giuseppe, fra il popolo calabrese si usava celebrare «l'invitu» (l’invito), un pranzo rituale a base di ceci in cui, come nei Saturnali Latini, i più abbienti davano un banchetto per i poveri e li servivano personalmente, donando infine pane, frutta e legumi; queste offerte di cibo a Paola venivano chiamate Juraglie di San Giuseppe. Usanza che ancora oggi si ripete a Cosenza, in occasione delle feste d'autunno. A Montalto i bambini usavano andare per il paese con piccole seghe di canna costruite da loro stessi e insolentire i vecchi che incontravano: un rituale che sta a significare il passaggio dalla vecchiaia alla nuova generazione, dal vecchio san Giuseppe ai ragazzi, dal vecchio anno, rappresentato dall'inverno ormai alla fine, alla primavera imminente. A san Giuseppe sono dedicate molte fiere paesane, momenti di vita in cui si scambiano le primizie e si saluta la primavera con dolci rituali e giochi tradizionali: in alcuni villaggi i bambini camminavano per tutto il giorno lungo le strade suonando piccoli zufoli di canna e sonaglini, ricordando così che presto tutto ciò che è vecchio doveva cedere il passo alle nuove vitalità. II mese di marzo è stato considerato dagli antichi come il principio del nuovo anno e temuto per il suo carattere di imprevedibilità tanto che i Latini lo dedicarono a Marte e al dio della guerra consacrarono le primavere sacre. La Pasqua cristiana racchiude in sé un profondo significato di rinascita spirituale, ma anche cosmica, momento di consacrazione e di purificazione degli elementi. L'acqua e l'uovo sono i simboli della festa, simboli concreti di potenza fecondatrice: come al tempo del solstizio d'inverno, anche per la Pasqua i contadini calabresi si provvedevano dell’acqua nuova, attinta alle fonti seguendo precise indicazioni rituali. L'acqua viene deposta in un orciolo nuovo e il pater familias, alla mezzanotte del sabato santo, ne beve un poco e bagna la casa invocando su di essa prosperità e benedizione. A San Pietro in Guarano i malati usavano scendere al fiume e bagnarsi nella notte di Pasqua invocando la guarigione, ma il rito doveva essere compiuto nel più assoluto silenzio e prima che sorgesse il sole. All'alba della domenica le contadine del villaggio di Aprigliano usavano scendere lungo il fiume Crati con una cesta piena di pane e di uova; rivoltavano le pietre lungo la riva sulle quali si sarebbero sedute e mangiavano insieme. Il pane pasquale, in tutti i paesi della Calabria, ha un enorme valore simbolico; viene lavorato con forme ricercate e adornato con uova in numero dispari. Questi pani rituali arricchiscono le mense della festa e se ne fa dono alle famiglie in lutto, ai bambini e al promesso sposo; alle bambine si regala un pane dolce a forma di bambola, in cui l'uovo rappresenta il viso e viene decorato con nastrini colorati. Nel giorno di Pasqua si usa far germinare dei semi di grano e in alcuni paesi vengono offerti ai defunti, così come accadeva nell'antica Grecia per gli Orti di Adone, quando le donne offrivano il grano nuovo commemorando la morte e la resurrezione di Adone, personificazione solare. Nei paesi albanesi del Pollino si usa festeggiare il martedì successivo alla Pasqua con incontri fra villaggi diversi, suoni e danze. A Frascineto si rappresenta la rusalet, in cui gruppi di giovani vestiti con i costumi tradizionali e con fogge da guerrieri, attraversano le vie del paese ricordando un'antichissima usanza balcanica in cui si compiva un rituale di guerra accerchiando uno straniero. Le danze vengono eseguite su musiche e canti trasmessi oralmente, nel corso dei secoli. A Lungro gli strumenti rituali accompagnano l'alba della Pasqua, momento in cui si celebra la funzione religiosa e le campane suonano annunciando la Resurrezione; nei rituali pasquali, oltre ai canti dell'antica liturgia bizantina, si usa salutare la Resurrezione col suono di uno zufolo chiamato titareta, il cui nome deriva da Titiri, gli uomini mascherati e vestiti di pelli che suonavano e danzavano nelle processioni dionisiache celebrando la rinascita del dio.

Cantare il Maggio

L'elemento matriarcale delle religioni mediterranee è presente soprattutto nei culti della Grande Dea, la divinità femminile della Terra come potenza feconda. Anticamente venivano celebrate delle feste dette Majume in cui veniva adorata Maia, la dea della fecondità. Durante queste celebrazioni che si svolgevano nella tarda primavera, si compivano dei riti orgiastici e gli uomini e le donne si riunivano sulle rive del mare, dei laghi e dei fiumi e andavano insieme a bagnarsi. Il bagno rituale è collegato alla credenza nel potere guaritore delle acque. Le abluzioni avevano anche un significato di purificazione: Oreste, dopo aver ucciso la madre, tormentato dalle Furie, trovò la pace solo dopo l'immersione nelle acque di un fiume sacro. Le feste in onore della dea Maia furono proibite dall'imperatore Costantino in nome della nuova fede cristiana. Giuliano l'Apostata, rifiutando il Cristianesimo, le permise nuovamente, ma infine l'imperatore Teodosio, su pressione delle autorità religiose, proclamò un editto per la loro abolizione. Questi rituali venivano compiuti sulle rive del Mediterraneo orientale da secoli, probabilmente connessi alle credenze minoiche della "Signora della Natura". Essi erano così profondamente radicati nelle culture dei popoli da suggerire la necessità di una mediazione. I figli di Teodosio, Arcadio e Onorio, furono costretti a consentire nuovamente lo svolgimento di questi rituali e anche quando in seguito vennero definitivamente banditi, essi continuavano ad essere celebrati segretamente. Lentamente la religione cristiana assorbì queste esigenze rituali mitigandone i linguaggi e i comportamenti. Nell'VIII secolo d.C. alle Majume si sostituì "la giornata delle rose" e si diffuse un po' ovunque, nei paesi lontani dal mare, l'abitudine di riempire dei vasi d'acqua cospargendone la superficie con petali di rosa, allo scopo di favorire le virtù taumaturgiche che nella notte dell'Ascensione Cristo trasferiva alle acque. Fra le comunità contadine della provincia di Cosenza, nei villaggi di Vaccarizzo, San Giorgio e Spezzano Albanese si usava, nella notte precedente l'Ascensione, scendere a mare per un'immersione rituale; i devoti erano soprattutto donne e aspettavano sulla spiaggia che sorgesse il sole. Questo bagno purificatore, avveniva anche perché si pensava che l'acqua divenisse magica a causa del passaggio di Gesù che saliva al cielo accompagnato dagli angeli. Nel giorno dell'Ascensione si raccoglieva un'erba considerata magica, usata fin dall'antichità da streghe e guaritori per le sue virtù: chiamata volgarmente "ombelico di Venere", questa pianta dai piccoli fiori rossastri aveva il potere di attrarre la fortuna se veniva sospesa fuori dalle finestre in maniera tale che i fiori si volgessero sempre verso l'alto. Affinché l'erba dell'Ascensione, detta anche erba della fortuna, mantenesse il massimo potere benefico, doveva essere ricercata all'alba e al momento della raccolta si pronunciava un versetto augurale:

“Ben trovata fortunella,

quando Jesu jia ppi terra

chi tè disse, chi tè scrisse

Fortunella, chi le disse ?”

 

I cicli della natura. Festività e cibo

 Come in tutti i popoli contadini, anche in Calabria si usava consacrare le primizie alle divinità. Le feste pagane ereditate dal mondo greco-romano sono state sostituite dalle festività cristiane e ancora oggi in molti paesi sono vive le antiche consuetudini, molte delle quali si sono mantenute grazie alla tradizione gastronomica che legava alcuni alimenti e alcune particolari preparazioni, ai momenti fondamentali dei cicli agrari. La realizzazione di pani rituali formati da un impasto di farina e miele è tipica di moltissime feste dei santi patroni della Calabria: i pani hanno forme simboliche, zoomorfe e antropomorfe, probabilmente sostituzione figurata delle antiche vittime sacrificali. Nel giorno dell'Ascensione, come nelle antiche feste romane delle Palilie, in cui si faceva bollire la farina d'orzo nel latte e se ne faceva dono agli dei, i contadini calabresi usavano farsi dono di latte fra le famiglie e preparare cibi a base di latte da porre a tavola nel giorno di festa. Nelle Palilie si usava anche accendere grandi fuochi con degli arbusti odorosi di olivo, lauro e rosmarino e attraversarli saltandovi sopra come segno di purificazione; lo stesso rituale veniva celebrato ad Amendolara nel giorno dedicato a san Vincenzo. I fuochi rituali vengono accesi anche in onore di santa Lucia, soprattutto fra le comunità di pastori. La sera, chiuso il gregge, i pastori si ritrovano insieme intorno alla chiesetta dedicata alla santa che, in paesi come Castrovillari, Amendolara, Bianchi, Scigliano, era posta fuori dall'abitato. Al suono della zampogna i pastori raccolgono gli arbusti e accendono i fuochi accompagnando con suoni e danze i momenti della festa che culmina con il passaggio fra le fiamme e con danze mimiche di antichissima origine. Un'altra usanza della festa di Santa Lucia è la distribuzione di fichi secchi ai poveri: ad Altomonte era tradizione donare fichi secchi, cereali e legumi di specie diverse in numero di nove, offrendo ai bisognosi le nove cose di santa Lucia; a Rossano vi era la stessa usanza, ma le specie dovevano essere tredici, poiché il giorno tredici si festeggia la santa degli impossibili. Le offerte di cibo benedetto, simili alla mola salsa dei Romani, sacralizzano la festa e rinforzano i legami all'interno di una comunità. Anche la festa di Santa Lucia, nelle sue più antiche celebrazioni assumeva forme tipiche della cultura greco-romana; essa ricorda infatti le Faunalia dei Romani, celebrate nel mese di dicembre, in cui i pastori onoravano le divinità dei boschi, ritrovandosi insieme intorno ai fuochi fra suoni e danze. Molti fra i santi cristiani hanno svolto fra le comunità dei paesi della Calabria un ruolo assai simile alle divinità pagane, fungendo da legame fra gli uomini e i cicli agrari. Nel giorno di Sant'Antonio Abate ad Amendolara si usava, come nelle Ippocrazie dei Greci e nelle Censualia dei Latini, far riposare gli animali da soma e portarli nei luoghi sacri ornati da nastri e ghirlande; nelle processioni in onore della Madonna a Longobucco, si usava ornare gli animali da offrire in voto, così come accadeva nei rituali di sacrificio degli antichi, la stessa usanza vi era fra i contadini di Marano Marchesato che nella festa del Carmine portavano in processione i buoi, al suono dei tamburi, dopo avere decorato le corna con nastri e fregi.

Rituali di nozze

Molti villaggi calabresi conservano costumi di origine greca e romana anche per quanto riguarda le pratiche e i rituali di nozze. Nell'area dell'Alto Cosentino, specie nelle zone fra San Lorenzo Bellizzi e Acri, era consuetudine che un giovane pretendente lasciasse sull'uscio della casa della fanciulla amata un grosso ceppo, segnato da un taglio di scure profondo, ma non tanto da spezzarlo, su cui venivano posti dei nastri colorati; se la famiglia della ragazza accettava la proposta, il ceppo veniva portato in casa e l'affare matrimoniale poteva dirsi concluso. Da tale usanza la fanciulla promessa sposa si definiva accoppata o inceppata, il ceppo da porre al focolare è il simbolo stesso della famiglia, il principio stesso del fuoco che una volta acceso deve essere mantenuto vivo dalla perseveranza femminile e dall'operosità dei pater familias. Ma l'usanza più antica riferita ai rituali di nozze è senz'altro quella del matrimonio per ratto, derivata direttamente dalle consuetudini spartane e latine, rivendicazione del diritto della forza e documentata dalle pinakes di Locri, tavolette votive in terracotta su cui è rappresentata la scena di Plutone che rapisce Proserpina. Del matrimonio per ratto restano solo il ricordo di alcuni gesti simbolici che compiva l'uomo per mostrare alla comunità e alla famiglia della fanciulla, la sua assoluta intenzione di prendere moglie. Era uso in molti villaggi che il pretendente si avvicinasse alla ragazza nei giorni di festa, all'uscita dalla chiesa e con gesto deciso togliesse dal capo il fazzoletto che le giovani usavano durante la funzione religiosa, tagliando con un coltello i nastri dell'abito della ragazza. Questi gesti mostravano inequivocabilmente alla comunità il diritto acquisito sulla promessa sposa, tanto che la fanciulla veniva detta scapigliata o segnata, per indicare l'appartenenza al giovane che aveva compiuto il rituale. Il ricordo del matrimonio per ratto è assai vivo nelle comunità di origine albanese dove, compiuta la funzione religiosa, la sposa, attorniata dai suoi familiari, finge di non voler seguire il marito; lo sposo comincia una lotta con i suoi oppositori e si impadronisce della ragazza e vengono intonati dei canti di nozze in onore dello sposo in cui si dice: «Egli è un'aquila che scende dalle montagne e si getta fra le pernici per scegliere la più bella e per rapirla». Un'usanza esistente fino a qualche decennio fa a Rende è di diretta derivazione romana; la sposa pettina i capelli fissandoli con uno spillone detto spatina simile alla hasta caelibaris di cui parla Plutarco, simbolo delle nozze compiute con contrasto e lotta. I rituali matrimoniali comprendono anche canti e danze legati a momenti ben precisi estranei alla funzione religiosa. A Trebisacce e molti altri paesi dell'Alto Ionio era costume portare il corredo in corteo festoso dalla casa della famiglia della sposa a quella dello sposo: questa usanza è ancora viva nei paesi del Magreb e rappresenta un momento di festa per l'intera comunità. Arrivato il corredo e disposto in ordine per essere ammirato dai visitatori, le donne cantano e danzano al suono del tamburello e mentre preparano il letto agli sposi intonano, come gli antichi Greci, gli inni nuziali. L'usanza di cantare intorno al letto nuziale gli epitalami dei Greci e dei Latini veniva chiamata in Calabria “cantari lu liettu” (cantare il letto) ed erano strofe di lode alla sposa e allo sposo in cui si esprimeva soddisfazione e buon augurio. Il corredo della sposa veniva spesso accompagnato da doni di primizie e da pani lavorati. Nei casali intorno a Cosenza era uso accompagnare con pani dolci tradizionali, muccellati, tortani, culluri, mentre nella vicina Marano Marchesato il corredo era accompagnato da semi di grano e legumi, simbolo di abbondanza e di pace. A Marzi e a Mangone era abitudine cuocere un pane di straordinaria grandezza, lavoro di tutte le donne della famiglia: un'usanza simile è ancora viva nei paesi albanesi, dove i pani hanno la forma di figure zoomorfe. Il pane ha un grande valore nel rito matrimoniale, tanto che in alcuni paesi, come Civita e Frascineto, gli sposi lo debbono spezzare insieme e il giorno seguente alle nozze i pani nuziali vengono distribuiti ai parenti. Anche questa usanza ricorda il mondo classico: a Roma si celebrava il matrimonio con una focaccia, panisfarreus, mentre ad Atene, nel banchetto, il giovane portava un canestro pieno di pane e intonava un inno di auguri. Il corteo nuziale avveniva fra canti e lancio di fiori e semi: quando la sposa giungeva sulla soglia della sua nuova casa trovava ad attenderla la suocera che le offriva in dono del miele, dei semi, della seta o gli strumenti del telaio, simbolo del suo nuovo status e della sua nuova appartenenza. Prima che si perdesse completamente l'uso del costume popolare, le spose non portavano l'abito bianco, ma indossavano per le nozze il costume della festa ornandolo con abbondanza di nastri e di gioielli. Grande importanza aveva la cintura con cui la sposa legava in vita il grembiule e il nodo con cui lo annodava drappeggiandolo sul fianco sinistro, in maniera del tutto simile al nodus herculeus dell'abito nuziale delle spose latine, nodo rituale che veniva sciolto dallo sposo la notte delle nozze.

Rituali di morte

Nelle campagne calabresi sono ancora vive le credenze che legano le comunità dei vivi al mondo dei trapassati, credenze di origine oscura, in cui il terrore verso il mondo dei morti, le antiche superstizioni si uniscono ai cicli agrari, ai simboli propri del mondo contadino. E’ una credenza diffusa che le anime dei defunti siano delle ombre che si aggirano intorno ai sepolcri che possono essere buone o cattive come i Lares e i Lemures dei Latini, prendendo forme diverse come scheletri, serpenti e lucertole. I più superstiziosi non uccidono mai gli animali in cui si crede possano prendere corpo i defunti: in alcuni villaggi silani si ha un rispetto sacro per le farfalle in cui albergano le anime del Purgatorio e si crede che quando una farfalla si aggira intorno al lume acceso sia un'anima in pena che va cercando pace, mentre nei topi che vagano per le campagne si crede che alberghino le anime dannate. Le ombre appaiono nei sogni cercando conforto per le loro anime rivelano segreti, annunciano eventi buoni o luttuosi; quando un'anima appare in sogno si ha il dovere di fornirla di un conforto, visitando la sua tomba, dicendo una messa, cucinando una pietanza particolarmente gradita all'estinto quand'era in vita. Sia i Greci che i Latini commemoravano i morti nel mese di febbraio, il mese delle purificazioni, celebrando le Antesterie e le Feriali, con offerte votive di cibo e vini sulle tombe, in questo periodo era credenza che i morti uscissero dalle dimore dell'Ade e vagassero ansiosi di cibo sulla terra; solo con offerte rituali, banchetti e danze, i vivi potevano placare quelle anime e rafforzare il loro legame con i morti. I calabresi conservano memoria di questo antico costume nei banchetti di carnevale dove, in molti paesi, si mangia e si beve in suffragio delle anime dei propri morti; a Lago si usava ergere un catafalco in ricordo dei trapassati intorno al quale venivano posti pane, vino, uova e legumi. Nei paesi di origine albanese ancora oggi si cuoce una focaccia di forma particolare, bucata al centro, la pizzàtuglit, simile per forma e funzione ai pani dei morti di cui parla Tucidide. I rituali funebri ricordano molto da vicino le usanze antiche. Quando una famiglia viene colpita da un lutto, si spegne il fuoco e le donne sciolgono i capelli, mentre gli uomini restano col cappello e non si rasano. La consuetudine del pianto delle prefiche era comune in tutti i paesi della Calabria e ancora perdura in alcuni villaggi: alcune donne erano chiamate per piangere intorno al catafalco del morto e svolgevano la loro funzione a pagamento. Anche fra i congiunti era importante che vi fossero delle aperte manifestazioni di dolore, tanto che nella tradizione popolare si tramandano vari canti funebri e lamentazioni che compiono le donne parenti del defunto accompagnate dagli altri conoscenti che partecipano al lutto. Il pianto rituale può avvenire solo di giorno e si sospende durante la notte, poiché si pensa che la notte appaia il demonio per godere del pianto delle anime cristiane, inoltre se il morto è un bambino, il pianto notturno gli sarebbe funesto perché gli angeli non lo accetterebbero in cielo. II morto viene posto con i piedi rivolti verso la porta di ingresso e secondo l'uso più antico deve avere i piedi nudi, se è un uomo, e la veste sciolta se è una donna; al momento in cui viene sistemato nella bara gli vengono posti accanto degli spiccioli, necessari per pagare il passaggio nell'aldilà sulla barca di Caronte. I calabresi credono che al momento di muoversi in viaggio verso il regno dei morti si abbia bisogno d’acqua e di pane: a Celico si usa porre accanto al catafalco un tozzo di pane e un boccale, ad Acri si lascia l'acqua accanto al letto di morte per tre giorni consecutivi, convinti che lo spettro si presenti a mezzanotte per berne. Nella città di Bisignano le famiglie più legate alla tradizione usano ancora porre accanto al cadavere un braciere in cui arde l'incenso, perpetuando un rituale di purificazione della casa e degli uomini contaminati dalla morte, simile in tutto alla suffitio dei Romani. Come presso gli antichi Greci, anche i calabresi danno una grande importanza agli onori funebri e hanno grande orrore della loro mancanza considerando che questo possa impedire la pace nel regno dei morti. Per favorire l'ultimo viaggio e sconfiggere gli spiriti maligni che erano nell'aria, gli antichi usavano percuotere con forza su dei vasi di rame. Ovidio ricorda come per compiere il rituale si dovessero percuotere l'uno contro l'altro dei bacili fabbricati a Temesa, l'antica città mineraria calabrese. Col Cristianesimo la tradizione originaria è stata sostituita dal suono delle campane che più è intenso e prolungato, più è utile al defunto. Ad Atene si usava tenere dei banchetti funebri il terzo, il nono e il trentesimo giorno dalla morte, reputando che i giorni multipli di tre potessero essere dei momenti di crisi e lo spettro potesse ritornare nella casa che aveva lasciato; il consumo di cibo rituale allontanava i pericoli di contaminazione con il regno delle ombre e assicurava ai vivi la protezione del defunto che diveniva un antenato benefico per la famiglia. La stessa consuetudine è viva in tutti i paesi della Calabria, ma i banchetti rituali sono stati sostituiti dalle funzioni religiose e dalla partecipazione all'Eucaristia. Durante l'anno erano molti i momenti in cui si temeva che gli spettri potessero tornare sulla terra. A Cosenza e nei casali circostanti si usava imbandire, così come accadeva presso i Greci, dei banchetti in suffragio dei defunti il primo lunedì di ogni mese; queste cene di Ecate avevano lo scopo di tener lontane le ombre proprio nei momenti in cui si dà inizio a qualcosa di nuovo, come il primo giorno della settimana nel nuovo mese, rafforzando i legami benefici con l'aldilà e mantenendo forte il ricordo fra le generazioni. Le streghe e gli stregoni sono stati considerati in tutta l'antichità come individui capaci di mettere in comunicazione il mondo degli dei con quello degli uomini, il mondo dei vivi con quello dei morti. Nelle culture subalterne, contadine, pastorali, sono rimaste intatte le credenze ereditate dal mondo classico e dall'Oriente: tutti i momenti dei cicli della vita agraria, della comunità, dei singoli individui, erano sottoposti a uno stretto rapporto con il mondo soprannaturale e segnati da precise forme rituali.

L'antica tradizione greca

Nell'antica Grecia si distinguevano tre diversi tipi di magia: pharmakéia, la maghéia e la goetéia. Questa impostazione sarà continuata in pieno Quattrocento dai filosofi naturalisti come Cardano, Della Porta, Campanella. Anch'essi, come gli antichi Greci, vedevano nella pharmakéia la pratica magica legata alla conoscenza delle erbe e dei loro principi medicamentosi, la maghéia la pratica di derivazione ermetica, orientale, cabalistica, attraverso la quale l'uomo colto si avvicina ai misteri divini, alla ricerca della conoscenza e della perfezione, la goetéia era invece la cosiddetta magia nera, in nome della quale si compivano i crimini più nefandi. Un preconcetto nei confronti delle donne voleva che queste fossero le più capaci di possedere l'arte della goetéia, un preconcetto che si manterrà vivo in tutto il Medioevo cristiano e nei tribunali dell'Inquisizione. Gli antichi Greci credevano che fossero le donne vecchie, arse da un desiderio sessuale inappagato, le streghe più temibili e identificavano nella Tessaglia il luogo in cui esse si riunivano per compiere i loro crimini raccapriccianti: si raccontavano storie di tombe di giovani violate, di fanciulli rapiti e sacrificati, di orrendi riti di cannibalismo uniti alla più sfrenata ricerca del piacere. Anche nell'antica Roma vi era il terrore delle streghe; ne è testimonianza il racconto che fa Trimalchione ai suoi commensali durante la cena descritta da Petronio Arbitro nel Satiricon in cui un ragazzo giovane e bello muore e il suo corpo viene violato e martoriato dalle streghe. Petronio conclude dicendo: «Esistono donne che sanno cose che noi non immaginiamo nemmeno, maghe notturne capaci di capovolgere l'ordine naturale delle cose». Anche Apuleio nelle Metamorfosi descrive una donna nell'atto di compiere riti magici nel chiuso del suo antro-laboratorio dove «Fanno bella mostra membra in gran copia strappate ai cadaveri dopo il compianto funebre e persino dopo la sepoltura: qua nasi e dita, là chiodi di condannati al supplizio della croce con su dei brandelli di carne, altrove fiale contenenti sangue di giustiziati e teschi recisi, contesi alle zanne delle fiere. Successivamente ella recita le formule magiche su delle viscere ancora palpitanti, sparge in espiazione liquidi vari e offre libagioni di vino mescolato. Poi intreccia e annoda tra loro capelli e li pone a bruciare nella brace insieme a una gran quantità di profumi. Ecco che subito l'irresistibile potenza dell'arte magica costringe i Numi a intervenire con la loro occulta energia…». Dalla letteratura romana, dalla mitologia greca e germanica si è ereditata la credenza della donna che si trasforma di notte in strega dalle sembianze d'uccello predatore, volando nei cieli fra grida terrificanti e pronta a entrare nelle case per divorare i bambini. Le donne accusate di questi crimini erano quasi sempre donne sole, anziane, vedove, senza alcuna protezione sociale sulle quali venivano riversate tè paure più profonde delle classi popolari. Dal punto di vista giuridico queste donne, proprio perché non erano più sotto la tutela del padre u del marito, non avevano una loro identità e l'autonomia che conquistavano attraverso la vedovanza era spesso oggetto di riprovazione sociale tanto che su di esse prendevano forma tutti i pregiudizi e le fobie sessuali del popolo. Spesso l'accusa di maleficio di cui sono oggetto le donne colpiscono proprio quelle anziane che per esperienza sono in grado di conoscere i segreti delle piante e le loro virtù terapeutiche: ciò avviene anche a causa dell'arretratezza della medicina e della diffidenza con cui vengono considerati gli studi dei saggi e dei filosofi. Le streghe sono causa di malattie e colpiscono le persone con ogni sorta di maleficio tanto da procurare paralisi, gonfiori, dolori agli arti, alto stomaco, al capo e gli esperti in materia assicuravano che esse erano in grado di fare uscire dalla bocca del malcapitato aghi, ferri, pietre e carta.

Magia popolare. Erbe e sortilegi

Prima del IX secolo, data che segna un momento importante nella scienza medica, il potere curativo delle piante era illimitato e, a detta del popolo, quasi miracoloso, ma l'effettivo potere benefico delle erbe si avvaleva in gran parte delle qualità "simboliche" delle diverse essenze vegetali e di una salda fede religiosa. Per risultare valide alcune particolari cure avevano bisogno di piante raccolte in una notte senza luna, o nel giorno dell'Ascensione o nella notte di San Giovanni Battista, momenti in cui l'ordine delle cose appare turbato e instabile. La capacità di un'erba medicinale di guarire o di uccidere corrisponde perfettamente al duplice volto della strega che sa fare il male ma che può fare anche il bene, Ancora oggi nella preparazione di molti farmaci vengono usate piante velenosissime di sempre associate ai sortilegi delle streghe come la belladonna e il giusquiamo. Le antiche credenze popolari calabresi affiancano alla natura delle piante medicinali un funesto richiamo simbolico e religioso; il loro effettivo funzionamento è dato da un numero elevato di fattori cui non sono estranei la partecipazione emotiva e il transfert che si andava ad instaurare tra malato e guaritore. Una serie di norme igieniche accompagnava il mondo contadino, come il guardarsi da particolari cibi o da particolari situazioni climatiche, ma altri fatti, di natura squisitamente simbolico-rituale, entravano a far parte del costume e del comportamento della gente del popolo. Molti erano i "tabù" a cui si sottoponevano e ciascuno aveva un valore che a prima vista può sfuggire all'osservatore disattento: non si doveva guardare l'arcobaleno, non si dovevano contare le stelle, non si dovevano tagliare le unghie di venerdì, non si doveva passare sotto le canne, non si doveva bruciare il giogo dei buoi, non si doveva tenere il bucato esposto all'aria della notte, le donne gravide non dovevano tenere appese al collo le matassine di filo che usavano per cucire. A una visione disattenta questi precetti possono apparire superstizioni insensate, ma basta scorgere in essi le simbologie di vita e di morte che contengono, per comprendere che sono immagini di un mondo che dà ordine e valore alle cose: l'arcobaleno congiunge la terra col cielo, rappresenta territori che solo ciò che è eccezionale può tenere insieme, ma che sono destinati a rimanere distanti; le stelle del cielo sono come gli anni della vita di un uomo, è pericoloso e inutile cercare un numero preciso e volerlo conoscere: le matasse del filo rappresentano, come nelle Parche della mitologia greca, la vita, che può essere recisa in qualunque istante dal destino: una donna gravida, piena di un'altra esistenza, non può portare sul suo corpo un oggetto di tanta pericolosa simbologia. Oltre a queste norme, i pastori e i contadini della Calabria si affidavano a donne considerate “magare” e guaritrici nei momenti in cui una malattia li minacciava: regole rituali ed erbe medicinali erano gli strumenti attraverso i quali si cercava una guarigione dal male. Ecco come la medicina popolare ha elaborato una prassi e una farmacopea con le quali far fronte alle malattie più comuni:

Costicelli caduti.

Sono le febbri dei bambini causate da strapazzo e apparentemente senza altra causa. Per curarle le madri ponevano i bambini sulle ginocchia sfregando con le mani le costole e le spalle e ungendo il petto con olio caldo e foglie di cavolo riscaldate e spalmate di cenere.

Verminazione.

Per i bambini che avevano vermi nelle feci si usava porre aglio schiacciato e foglie di menta sull'ombelico e le stesse erbe venivano fatte ingerire in decotto.

Tosse convulsiva.

Il rimedio erano decotti di orzo, malva e fichi secchi a cui si aggiungeva il papavero.

Dolore al ventre.

Venivano somministrati decotti di camomilla e alloro e tabacco da fiuto posato sull'ombelico del malato.

“’U pilu d'a minna”.

Si tratta dell'occlusione del condotto mammario e produce dolore e febbre forte: veniva curato con olio caldo spalmato sulla mammella e foglie di cavolo appassite sul fuoco.

“Li serchi”.

Sono le ragadi delle mammelle, curabili con foglie di mirto pestate e impacchi di scorza di quercia e vite: era utile ungere il seno con burro e cenere.

“’U latti perdutu”.

Per le donne che perdevano il latte era suggerito il brodo di borragine. Se il latte continuava a mancare il rimedio sovrano era il brodo di razza e di polpo.

“Chilladintra”.

Era il nome dato a una forma d’isteria che colpiva essenzialmente le donne: veniva curata con decotto d'anice misto a camomilla.

“'U mali di l'arcu”.

Per questa forma di epatite le cure erano molteplici; prima fra tutte gli scongiuri di un prete, seguiti dal decotto di foglie di olivo, lupini amari e urina di vergine. Altro rimedio erano il fiele del riccio e le ragnatele unite al decotto di gramigna, alla verbena in cataplasmi e allo sterco di capra.

“I jacchi a li mani”.

Sono le screpolature che si procuravano le donne raccogliendo a mani nude le foglie dei gelsi per allevare i bachi da seta; si curavano ponendo sulle ferite foglie di olmo miste a fuliggine.

“Raggia canina”.

L'idrofobia si curava con i peli del cane che aveva morso posti direttamente sulla ferita o, nel caso che ciò non fosse stato possibile, si ricorreva al ferro rovente col quale si bruciava in profondità la parte morsa.

“Frevi di malaria”.

Le febbri malariche venivano curate con radici di quercia, sambuco e genziana. Spesso le guaritrici, nei casi più gravi, facevano ingerire vermi e ragni e persino teste di serpente.

“Vucca malata”.

Per le afte della bocca il rimedio sovrano erano i decotti di salvia e veronica.

“Muzzicuni di rijlli”.

Gli uomini morsi dai serpenti dovevano legare strettamente la parte e accendere sulla ferita un gran numero di zolfanelli.

 

Le guaritrici che conoscevano questi segreti avevano potere anche sugli animali. Si diceva che alcune donne avessero il potere di "'legare i cani", cioè che fossero capaci, pronunciando alcune formule magiche, di ridurre i cani all'impotenza bloccandone i movimenti. Lo stesso potere poteva aversi anche con animali diversi: era abitudine nelle fiere che alcuni girovaghi si guadagnassero da vivere facendo gli incantatori di serpenti. Questo potere, secondo la tradizione, veniva direttamente da san Paolo e coloro i quali erano capaci di compiere queste imprese venivano chiamati "sanpaulari” ed erano richiesti dai contadini quando si pensava che un podere fosse infestato dai serpenti. Alcuni paesi erano particolarmente famosi per la presenza di "magare", fattucchiere molto potenti capaci di esercitare anche la magia nera: esse erano soprattutto delle vecchie vedove sole che vivevano lontano dall'abitato. Le streghe erano in grado di gettare addosso la "magheria" attraverso filtri e parole magiche compiendo le loro pratiche anche a pagamento. Le donne spesso si rivolgevano alle magare per legare a sé un uomo utilizzando come strumenti spilloni, capelli e sangue mestruale.

Divinazioni

I segni naturali e le agitazioni improvvise e involontarie del corpo sono stati considerati degli strumenti attraverso i quali interpretare il volere delle divinità o conoscere l'avvenire; come nella divinazione palmica dei Greci, anche i calabresi attraverso i movimenti dell'occhio, gli sbadigli, gli starnuti, interpretano il futuro, si accorgono del malocchio. Sono molti i proverbi che sintetizzano il significato dei movimenti involontari del corpo:

«uocchiu destru, collera prestu» (Acri);

«Mancu joca francu» (Altomonte);

«uocchiu destru contrastu, uocchiu mancu speranza» (Marzi);

conferendo un valore positivo o negativo agli sguardi o ai battiti involontari dell'occhio. Anche l'apparire del singhiozzo assume un valore di divinazione («s'edi a bene trattene, s'edi a male vavattinne») interpretando come buono o cattivo presagio il perdurare o l'arrestarsi del fenomeno. Quando un individuo sbadiglia frequentemente è segno che è stato colpito dal malocchio; la “magara” o la donna esperta in pratiche magiche è in grado di conoscere il sesso di chi ha gettato il malocchio sul malcapitato e se gli viene fornito un oggetto appartenente all'invidioso iettatore, comincia lei stessa a sbadigliare senza mai fermarsi, fin quando non viene pronunciato il suo nome. Un'altra pratica divinatoria assai antica è l’interpretazione dei sogni. Spesso sono i morti a svelare il futuro, a volte sognare particolari oggetti o situazioni di cui si conoscono i significati, aiuta a conoscere quello che il destino riserva. L'uva significa lacrime e dispiacere, le uova morte di una persona cara, i garofani in boccio morte dei bambini, gli alberi cadenti la perdita del capofamiglia, l'acqua torbida intrighi e maldicenze, la morte di una persona cara significa il prolungamento della sua vita, la vista di un incendio, di una tomba, dì sangue, di oro ha il significato di eventi luttuosi. A Rossano, per scongiurare il cattivo augurio di un sogno, si recita a mo' di scongiuro un verso in cui si cerca la fiducia di san Giovanni:

“Chi beddu sonnu chi m 'haju sonnatu!

A Santu Giovanni ci I 'haju cuntatu:

Santu Giuvanni l'ha cuntatu a Cristu,

Chi beddu sonnu chi è statu chistu!”

Probabilmente san Giovanni, entrato nella religione popolare nel suo significato di divinità legata al solstizio estivo, proprio per il suo carattere di solarità è deputato a sciogliere gli incubi della notte; come i Romani narravano i loro sogni a Vesta, simbolo del fuoco, perché credevano che i fenomeni notturni dovessero essere interpretati al chiarore della luce, così nel mondo popolare calabrese san Giovanni svolge la funzione positiva di equilibrio verso tutto ciò che è notturno e instabile.

 

Il volo degli uccelli e le viscere delle vittime

L'arte di trarre gli auspici dal volo degli uccelli è fra le più antiche forme di divinazione. Fra i calabresi si sono tramandate le usanze del mondo classico tipiche di questa forma di magìa e per mezzo dei proverbi e delle conoscenze di alcuni individui particolarmente dotati di capacità magica è possibile conoscere gli eventi futuri e sapere se ciò che accadrà sarà benefico o nefasto. Nelle campagne era diffusa la credenza che i gufi fossero portatori di disgrazie e, quando l'uccello volava intorno a una casa, l'unico modo per esorcizzare la mala sorte era uccidere il povero animale e inchiodarlo sull'uscio. Questa usanza barbara interpretava l'antica sentenza romana aves inauspicatae foribus affixae, secondo la quale solo la crudele uccisione dell'animale del malaugurio poteva scongiurare la sfortuna. La civetta (“pigula”) è di buon augurio alla casa dove si posa, ma di cattivo a quella dove guarda, infatti il proverbio dice «beatu duva seda, amaru duva vede». Il cuculo, l'uccello delle divinazioni, prognostica col suo canto la durata della vita di chi lo interroga; anche il corvo, ritenuto dagli antichi compagno di Apollo e perciò dotato di virtù profetiche, porta col suo volo fortuna o sfortuna a secondo che la direzione sia da destra a sinistra o da sinistra a destra. La tradizione dell'uccisione del maiale, ancora assai viva nelle campagne, assume dei significati speciali ed è accompagnata da particolari ritualità che fanno del pater familias, assistito dal primogenito, una sorta di sacerdote sacrificale; anche le carni del banchetto a cui vengono invitati parenti e amici, assumono significati precisi rafforzando i vincoli fra le famiglie. Prima della consumazione delle carni appena macellate è possibile trarre delle divinazioni: ad Altomonte si crede che le viscere insanguinate siano segno di buona fortuna; a Scigliano, se la padrona di casa è incinta, dalla consistenza del peritoneo si trae la divinazione sul sesso del nascituro: a Marzi si compie la stessa lettura sul rene del maiale messo a bollire nella caldaia del grasso. Orazio ha tramandato la notizia legata al sacrificio del maiale nell'antica Roma: esso avveniva con procedure assai simili ed era considerato un momento da consacrare ai Lari, i numi tutelari della famiglia. Nei doni di carne, che la famiglia in cui è stato celebrato il rito invia a parenti e amici, non deve mancare il fegato, considerato una parte di grande importanza e per questo segno di riguardo verso il destinatario del dono. Il ruolo fondamentale del fegato come organo in cui è possibile leggere gli eventi è stato tramandato nel corso dei secoli dalle più antiche credenze, anche di origine colta, fino alle culture delle classi popolari; Platone nel Timeo vede nel fegato il prodotto della divinazione intuitiva e considera quest'organo l'unìco in grado di mantenere, anche dopo la morte, tracce delle immagini e delle conoscenze acquisite, per questo le vittime sacrificali, per un transfert con la divinità, portavano nel fegato i segni dei voleri del ciclo.

 

 Il fuoco, le foglie, le voci

Dal fuoco dei sacrifici antichi si traevano gli auspici. Alla stessa maniera in Calabria si traggono delle conoscenze dal modo in cui arde la fiamma: se il fuoco fa rumore, una persona lontana parla di noi, se una fronda di lauro o di olivo gettata nel fuoco si accartoccia e balza via è segno che si è amati, se la fiamma di una lucerna arde dritta e immobile, il segno è fausto e se in casa una persona è ammalata è segno che guarirà presto, se la fiamma arde diseguale l'auspicio è cattivo. Per conoscere la propria fortuna si usa bruciare della carta e invocare sant'Antonio d'u focu con una cantilena segreta: dal modo in cui la carta arderà e dalla forma che prenderà una volta consumata, si potranno trarre gli auspici.  Le foglie e i petali dei fiori sono strumenti di divinazione, essi danno risposta ai dubbi d'amore; dal modo in cui si schiaccerà una foglia di papavero, i ragazzi possono sapere se sono ricambiati nei loro sentimenti. La stessa credenza ci viene tramandata da Teocrito; il capraio innamorato, ma non corrisposto, piange le sue pene d'amore dicendo: «Io mi accorsi, cercando di sapere se m'ami, che non fece scoppio la foglia del papavero schiacciata, ma sul morbido braccio appassita mi restò invano». Insieme alle foglie e ai petali, molte sono le cose della natura che possono essere interpretate come segni e divinazioni. La lucciola (cariola, licemella, colombina) porta l'augurio di un'anima buona, per assicurarsene le grazie i fanciulli usavano correrle dietro promettendo all'animale cibo e cure; «Cariola, scinni e vola. ca ti dugnu pane e ova» cantavano i fanciulli di Longobardi quando scorgevano le lucciole nei prati. Anche nei voli di calabroni e di vesponi c'è il segno del destino, dal modo in cui si aggirano in una stanza è possibile trarre gli auspici. Infausti segni del destino sono i cani neri, considerati fin dal Medioevo personificazioni del demonio; l'ingresso di un simile animale all'interno di una casa era inteso come un presagio assai negativo. Spesso, durante il viaggio di un contadino, di un viandante, capitava di imbattersi in animali e in uomini, i! modo in cui questi si manifestavano al viaggiatore assumeva dei significati ben precisi negli incontri casuali si potevano scorgere i segni del destino, a volte la stessa morte o il diavolo affrontavano il viandante sotto forma di animali o di uno sconosciuto. Durante questi viaggi solitari un uomo, assorto nei propri pensieri, poteva ascoltare una voce, un suono, proveniente da uno spirito che voleva avvisarlo di qualcosa: le voci misteriose provengono dagli dèi o dal mondo delle ombre e alla stessa maniera come Ulisse manda nella notte una preghiera e l'affida a Giove affinché la metta sulla bocca di uno sconosciuto, così anche un uomo mai visto, o un bosco, una montagna, possono trasmettere messaggi provenienti da mondi lontani. Anche le voci misteriose dello scricchiolio di una trave o di un mobile possono essere messaggi degli spettri mandati nel  mondo degli uomini per predire una sventura; anche ascoltare un pianto lontano o delle grida sono presagi funesti, mentre i suoni e i canti che porta il vento sono da intendere come segni di felicità.

Superstizioni e tradizioni magiche

I giorni hanno grande importanza nella pratica magica e possono essere fasti o nefasti: il venerdì è il giorno di crisi in cui è di cattivo augurio battezzare i bambini, cambiare gli abiti, tagliare i capelli e le unghie. A Bisignano non si faceva mai visita di venerdì a una donna appena maritata o che avesse da poco partorito perché sarebbe stato di cattivo augurio. Il sabato è invece il giorno delle streghe, il giorno in cui il demonio può prendere corpo in un caprone, mentre il giovedì era da considerarsi di semiriposo e alcune operazioni, come ad esempio curare i bachi da seta, non dovevano essere compiute. Anche la notte ha un'influenza sugli uomini perché è consacrata agli spiriti e alle ombre: dopo il calare del sole non si deve prestare il lievito, altrimenti il pane non crescerà, le madri non portano in braccio i bambini, ma devono essere i padri a proteggerli dagli spiriti della notte. Nei momenti di crisi dell'anno, a Capodanno, alla Candelora, nella notte di San Giovanni, le streghe si impossessano dell'aria intorno ai villaggi e si possono allontanare solo con gli strepiti dei tamburelli e di altri strumenti improvvisati o con gli scongiuri. Come per la spina solstitialis dei Romani, anche i calabresi affidavano ad un'erba magica il potere di fugare i demoni: è l'erba di S. Giovanni, usata anche da altri popoli d'Europa per questo scopo e che appariva nelle formule magione dei druidi e delle streghe. Inviare dei mazzi d'erba di San Giovanni era segno di buon augurio e voleva essere un gesto di pace e di fratellanza, i legami che si stringevano con l'invio di questa erba fiorita potevano durare tutta la vita e unire le famiglie con un vincolo più forte di quello che esisteva fra parenti. Le “magare” conoscevano i segreti dell'erba di San Giovanni che si credeva avesse il potere di allontanare i demoni, ma anche di evocarli, e nei villaggi rurali le donne pratiche di magia venivano trattate con timore e con rispetto, chiamate con l'appellativo di zia o comare, come i francesi le chiamavano sage femme o bonne dame, un modo per attirarsi le loro simpatie allontanando il pericolo di iettature e sortilegi. Le “magare” uscivano di notte e sotto forma di uccello notturno potevano insidiare i bambini nelle culle e rapire le ragazze trasportandole lontano; avevano il potere di ammaliare le persone con formule e filtri, eccitare l’odio o l'amore, produrre malattie, gettare il malocchio su uomini e animali. La sua vicinanza alle forze della notte, al potere misterioso della luna, la rendeva capace di trasformare gli uomini in lupi e questi disgraziati passavano le notti di luna piena urlando e camminando carponi per le strade intorno ai villaggi. Solo l'uso di scongiuri (“carmare o fare u carmu”) poteva preservare da queste influenze e dovevano essere recitate di notte in una chiesa, cercando la vendetta contro !e potenze malefiche. Le donne colpite da emicrania, per liberarsi dal malocchio che le aveva colpite che prendeva la forma di malore, recitavano lo scongiuro;

“Miseria maledetta,

vatti a mari ad annigari

chista è carni benedetta

e non hai tu chi ci fari.

Carrica e scarica, pitittu e miseria, rugna e tigna,

tu quannu vidi a mia morta ma cadi”.

Quando una “magara” buona era chiamata a contrastare un maleficio, recitava il carme di scongiuro, metteva in bocca un pizzico di sale e poi leccava tre volte la fronte dell'affascinato e per tre volte gli alitava sul viso. Dovendo iniziare alla magia una giovane donna, si aveva cura di trasmettere le formule magiche durante la notte di Natale, fuori da tale giorno ogni passaggio di conoscenze occulte era tabù. Insieme agli scongiuri e al sale fra i rimedi magici primeggiava la ruta, una pianta dal potere narcotico che, per avere valore magico, doveva essere raccolta dopo la mezzanotte. L'uso della ruta è documentato fin dall'antichità, era la pianta sacra ad Ecate, la dea degli incantesimi e raccolta in ramoscelli aveva la capacità di allontanare dai luoghi dove veniva posata spiriti e influenze nefaste. Fra gli strumenti usati dalle “magare” sono da annoverare anche i teschi di alcuni animali, i chiodi di ferro, gli amuleti; la saliva era considerata un importante mezzo magico, sputare tre volte in terra, ripetendo uno scongiuro, era un modo per contrastare il malocchio e i demoni maligni. Spesso all'atto dello sputare si aggiungeva l'esclamazione “otto e nove”, reminiscenza della magia dei numeri di origine pitagorica secondo la quale il 9 è il primo quadrato fra tutti i numeri originato dal 3 numero perfetto, mentre 8 è formato dal cubo del 2 primo numero pari. Fra gli amuleti magici, molti legati al collo dei bambini per tutelarli dalle malattie e dal fascino, vi sono forme molto antiche come piccole forme di pietra forate, scaglie di salgemma, piccole chiavi di ferro o di argento, piccole scuri:  diffusissimo è l'uso del cosiddetto abitino, minuscole sacche di tessuto in cui venivano riposte foglioline di palma benedetta, cera dell'altare, grani d’incenso, tutto rigorosamente in numero di tre. Quando nell'antica Roma scoppiava un'epidemia, i censori avevano il compito di recarsi nel tempio di Marte e di portare sull'altare un chiodo di ferro: questo oggetto scaramantico aveva il potere di tutelare caricando su di sé le malattie e le cattive influenze. L'uso di questi chiodi era assai diffuso e venivano chiamati chiodi della Fortuna; durante il Cristianesimo il chiodo divenne l'oggetto in cui amava tramutarsi il demonio e nelle pratiche di esorcismo spesso gli indemoniati, all'atto di liberarsi dallo spirito maligno, vomitavano chiodi. Questo costume, conosciuto e praticato in Calabria, era assai diffuso fra pastori e contadini i quali usavano appendere al collo degli animali, insieme al loro sonaglio, un piccolo chiodo che una “magara” aveva reso capace di allontanare il malocchio. Le maghe conoscevano anche il modo di dominare i fenomeni atmosferici, poiché fra i calabresi era seguita l'opinione, comune fra i neoplatonici, che fossero i demoni, abitatori dell'Aria, a scatenare gli elementi. Per dare forma cristiana a questa credenza si usava invocare santa Barbara, la sola ad avere potere sugli elementi indemoniati.

“Santa Barbara affaccia, affaccia

che ci passano tre galere,

due di acqua e una di vientu,

Santa Barbara fa buonu tiempu”.

  

Silenziose sentinelle di pietra.

Testimoni mute delle passioni e degli intrighi delle generazioni che vi sono vissute, certe case sembrano racchiudere le ombre del proprio passato. Lungo i corridoi e sugli spalti degli antichi castelli battuti dal vento, entro le mura invase dalla muffa di nobili dimore perdute nella nebbia, gli antichi torti, le perfidie, le bramosie sembrano non voler morire e impregnano come un miasma le fredde pietre che li videro nascere. Le leggende sulle case infestate dagli spettri ci sono sempre state. Ma gli spettri sono reali, oppure non sono altro che invenzioni umane suscitate dall'atmosfera malsana di certe abitazioni? Alcuni ricercatori psichici hanno ipotizzato che gli spettri infestino realmente le case, anche se solo come perdurare, sotto forma di immagini indistinte, di sentimenti particolarmente forti e di eventi funesti. Il fisico sir Oliver Lodge riteneva, nel 1908, che simili manifestazioni fossero “la rappresentazione spettrale di qualche tragedia da lungo tempo consumata”. Lodge e altri con lui credevano che le emozioni violente potessero, in qualche modo, imprimersi nell'ambiente e ritrasmettersi successivamente a persone così sensibili da percepirle. Non c'è da stupirsi se la tradizione dei fantasmi appare tanto ricca di storie dall'intensa carica emotiva. Come suggeriscono gli esempi delle pagine seguenti, gli spettri potrebbero apparire come lugubri messaggeri di catastrofe o come spiriti di chi, travolto dalle passioni in vita, non ha trovato pace nella morte, spinto da brame malvagio o da un rimorso profondo, da sete di giustizia o dal bisogno di rappresentare all'infinito la tragedia di un amore frustrato.

 Il magico mondo dei folletti calabresi e i loro nomi. E’ difficile immaginare che esistano tra gli esseri favolosi che popolano i racconti e le cronache della Magia, personaggi più misteriosi e bizzarri degli Gnomi, dei Fauni, degli Elfi, delle Ninfe,di quei piccoli rappresentanti invisibili della Natura, conosciuti in ogni pane del mondo sotto vari nomi e che noi, fin da bambini, dalle prime favole di fate e di streghe, impariamo a conoscere come Folletti. Certo, parlare oggi di questi antichi abitatori de «l'Altro Regno», può forse apparire più come un omaggio al «fantasy», che un tentativo di indagine seria in una realtà sconosciuta o poco esplorala della nostra cultura. Ma se riflettiamo un attimo sul fatto, innegabile d'altronde, che fino a pochi anni fa. soprattutto nelle nostre campagne e tuttora in alcune località non completamente contaminate dai residui corrosivi della «civiltà dei consumi», i folletti spiavano con i loro occhi vispi e curiosi, nascosti tra le foglie, dietro i cespugli, i poveri abitanti di paesi e villaggi, combinando spesso piccoli scherzi innocui o regalando fortune  inattese,  temuti,  rispettati,  a  volte  amati  e  spesso comunque accettati come elemento naturale e quasi «familiare» della vita quotidiana delta gente comune, si potrà almeno considerare l'ipotesi, meno azzardata di quanto possa sembrare, che qualche cosa dì più importante della semplicistica diagnosi risolutiva della suggestione o della fantasia popolare, si nasconda dietro il mito dei folletti. Ogni città, ogni regione, addirittura ogni paese, praticamente, ha nominato un proprio «folletto protettore», attribuendogli un nome quantomeno bizzarro. I Monaci Folletti sono folletti presenti soprattutto in Calabria, mentre, il Monacello è il nome che viene dato comunemente al folletto burlone, diffuso in tutta l'Italia meridionale. In particolare gli Augurielli, invece, sono presenti soprattutto in provincia di Catanzaro e, secondo il locale folklore, sono paffuti, con piedi a forma di zoccoli di cavallo e un berretto rosso sulla testa ricciuta. Portano fortuna a chi li incontra, sono molto gelosi delle case che abitano e bersagliano di scherzi i nuovi inquilini. Sono attratti da tutto ciò che luccica e per farseli amici è d'uso regalare loro oggetti di piccole dimensioni. A Catanzaro viene chiamato, invece, “U’ Monacheddu”; coloro che lo hanno visto dicono che il tipico aspetto di questo folletto è quello di un «nanetto vestito da frate, con fibbie d'argento ai sandali e lo zucchetto rosso in capo». Si ritiene che chi riesce ad impossessarsi di questo caratteristico copricapo, sia molto fortunato; un po' come chi riuscisse a trovare la fine dell'arcobaleno, dove secondo una poetica leggenda popolare dovrebbe essere nascosta una bella pentola di monete d'oro! Tuttavia l'impresa non è affatto facile, sia perché lo spiritello appare assai raramente, sia perché, se il colpo dovesse fallire, U’ Monacheddu si vendicherebbe inesorabilmente dell'incauto, sacrilego ladruncolo. In ogni modo, a quel che si dice in Calabria, chi fosse in grado di rubargli il berretto, potrebbe facilmente vedersi offrire quale riscatto, «molto denaro o addirittura un tesoro». La tradizione vede i folletti anche nei panni di guardiani di tesori ed è tuttavia assai antica, già nella religione popolare della Roma dei Cesari, il termine Incubus assumeva anche il significato di essere soprannaturale custode di tesori. Incubo era inoltre l'epiteto dell'Ercole italico, amico dei contadini in cerca di tesori celati nella terra. I Faretti, sono folletti presenti in Calabria, molto simili agli Augurielli. Il Cuscu, è un folletto calabrese di indole maligna. U’ Fuddettu è il folletto presente nella tradizione folkloristica di Reggio Calabria. I Marrauchicchi, Marrauchini sono folletti presenti sulla costa jonica e sui monti della Sila in Calabria.  «U’ scavuseddu» regna invece a Crotone.

 

SAN ONOFRIO. Le notizie biografiche relative a S. Onofrio sono poche e frammentarie ed, inoltre, esse non possono essere garantite storicamente. Certo è che il vibonese, dove la tradizione afferma che questa figura raggiunse le più alte vette di santità, era cosparso di monasteri. E sono propri questi monasteri a dare un fondamento storico alle tradizioni sulla vita di S. Onofrio. Egli nacque a Belforte, in provincia di Catanzaro, da una famiglia di cristiani praticanti. Onofrio visse la maggior parte della sua vita da laico. Quando sentì il bisogno di allontanarsi dal mondo, scelse come luogo di raccoglimento e perfezionamento spirituale una campagna vicino a Vibo Valentia, in una località caratterizzata da voragini, e chiamata, per questo motivo, del Caos. Attratti dalle sue virtù, molti accorsero a chiedere di far parte della comunità monastica che egli aveva fondato e per la quale aveva costruito un cenobio, proprio nella località malsana e, poi, bonificata per la circostanza. Fra gli altri, vi giunse anche la sorella del Santo, Elena. Questa partecipava alla vita spirituale della comunità, ma venne ucciso da un servo del conte di Belforte. Sembrava che l'autore del delitto dovesse rimanere impunito, ma l'intervento di Onofrio fece scoprire il colpevole. Alla donna, assurta così alle glorie della santità, fu data sepoltura nella chiesa dove, più tardi, avrebbero trovato posto le spoglie dello stesso Onofrio. Ma, come avvenne per molti altri santi italo greci, le loro spoglie andarono disperse.