Ass. Naz. Bersaglieri Sez. di Desenzano
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La psicologia del bersagliere

Bersagliere si nasce.
E solo in Italia: per decreto della natura, di cui il fante piumato è, per il suo splendore fisico e spirituale, il più alto miracolo. Un’anima bella in un corpo perfetto.
Concepito, più che da un sapiente ordinatore, da un profondo psicologo, capace di intendere le più squisite vibrazioni del cuore del nostro popolo, il Corpo di La Marmora riassume il carattere e riflette il volto della Nazione, di cui ha accompagnato ogni passo. Ecco perché il bersagliere è, per autonomasia, il soldato italiano, il più italiano dei soldati; ed ecco perché la coscienza nazionale riconosce in lui il simbolo della stirpe. Sintesi di forza spigliata e di ardente entusiasmo, nella sua vita faticosa ed affascinante il bersagliere manifesta sempre ricchezza di immaginazione, freschezza di sentimenti, temperamento esuberante, impetuoso, sbrigativo.
Può essere anche, come scrive il Papini, giudicato “caldo, eccessivo, esagerato, troppo poeta”, più torrente che fiume, soggiungiamo noi, e perciò nemico delle mezze misure e pronto sempre a farne una delle sue, a raggiungere, per esempio, il proprio obiettivo d’attacco dopo averlo superato, come nel 1916 a q. 308 del Pecinka, o prima del tempo fissato, come nel 1945 a Poggio Scanno, “prematuramente conquistato”, però non è mai intollerante della disciplina, seppur disciplinato a modo suo.
Poiché non v’è ormai più dubbio che Iddio  metta nelle animule nasciture dei bersaglieri una abbondevole particella di fuoco rispetto a quella degli altri mortali, essi si distinguono per una fervida esagerazione di ideali, un ardore magnanimo e un intenso desiderio di gloria, donde una concezione di vita, un costume, uno stile inconfondibile che spesso danno origine a individualità di eccezione o, addirittura, a potenti personalità.
Del resto, l’ardore non è il privilegio degli Eroi e dei Santi? E la tranquillità non è stata definita “la vigliaccheria dello spirito” ? In essi è generosità, lealtà, fierezza, intraprendenza, sorriso. Oltre che estrosi e spericolati, sono scanzonati e anche spavaldi, con un granello di Guascogna che sa di Cyrano e un pizzichino di mattezza che sa di Don Chisciotte. Se non sono matti per natura, diventano degli “accidenti” per contagio, ma con genio e simpatia, anche quando una ne pensano e dieci ne fanno.
Che siano sempre mossi dal senso del reale, lo prova il fatto che quando la Patria è in pericolo, gli “sbruffoni”, gli “spacconi” sorgono dalle profondità della Nazione e vanno incontro alla morte con ragionata volontà e consapevole coscienza.
Il bersagliere fa sue le parole di Luciano Manara alla difesa di Roma: “...noi non faremo “fanfaronate”! Ci faremo ammazzar tutti”. Duri nella fatica, duri nel combattere, durissimi nei rovesci, hanno sempre superato prove ed eventi contro gente di ogni colore e di ogni terra, nella risoluta volontà di procedere oltre se stessi e oltre ogni meta, contro popoli e secoli.
Refrattari ad ogni contagio disfattista e irriducibili più nella sventura che nel successo, il destino ne ha più volte saggiato   la  ferrea   tempra.
E’ più facile disintegrare l’atomo che il loro animo.
Misura nella vittoria, dignità nella sconfitta. A Novara, a Custoza, a Caporetto, non conobbero smarrimento.
Intatta virtù romana.
Lo stesso nel quadro della desolata seconda guerra mondiale, anche quando dovettero difendersi da incapaci, da ignavi, da traditori. Il petto squarciato sulle rupi eritree, la faccia grondante  sulle balze greche, gli arti cancrenosi nell’agghiacciata steppa, il corpo rullato nella bollente arena libica, il soldato di La Marmora rimase se stesso al massimo grado. Anche nel disperato tentativo di non soccombere, seguì la via dell’onore, non conobbe apostasia, sicché memoria immortale ha lasciato di se anche fra gli amici e i nemici di prima e di dopo.
Dall’esperienza romantica del 1848 alle tragiche prove del 1945, il nome di “Bersaglieri” suonò sempre ammirato e temuto, tanto che se la Patria potesse con umana voce esprimere il desiderio di essere difesa da un solo soldato, altro non sceglierebbe che il bersagliere. Il bersagliere crede. Crede in Dio e in se stesso; però a se stesso non pensa, come se privo dell’istinto di conservazione. Il suo vivere è un continuo correre alla morte.
A Meschkow e a Biserta i bersaglieri arrivano al punto di cercare nella morte la salvezza. La illimitata fiducia nelle proprie esclusive forze è la malattia originale di queste creature sovrane.
Presunzione? Illusione? Può darsi; ma anche certezza che sublima la loro esistenza e li rende capaci della più splendente devozione al sacrificio, come hanno saputo dimostrare in ogni grande momento storico. Portati per natura a tutto ciò che ha un senso di grandezza, ammaliati da tutto ciò che ha sapore di prodigio, il rischio è la loro vita.
Nel bersagliere è come un bisogno epico dell’azione, la felicità dell’azione, e perciò non conosce attesa, se mai, aspettazione; e perciò non conosce disperazione o rassegnazione, bensì fiducia impavida, che sfida difficoltà e anela conforti, spesso varcando i termini del prevedibile, i confini della stessa immaginazione. Al pari del Satana di Milton egli si rifiuta di riconoscere i limiti delle facoltà umane. Questo spieghi perché fu scritto che i bersaglieri sono “pronti a diventar dieci in uno, mille in cento; sempre pochi a contarli, ma troppi sempre per essere sconfitti”.
Tutte le guerre d’Italia sono piene di bersaglieri; tutte le battaglie della Patria, recano di essi il suggello vermiglio.
Sempre in prima schiera, sempre sulla breccia e allo sbaraglio; mai domi, mai dubbiosi o sgomenti, anche quando la realtà li delude, mai stanchi o ammalati, ne feriti ne prigionieri e neppure morti: dopo morti, tre salti mortali.
Altro privilegio del fante piumato è lo spirito gaio, sapido, che non disdegna la gioia della beffa e scaturisce da una irrimediabile allegrezza. Il suo sistema intellettuale risiede nel cuore, inesausta sorgente di magnanime aspirazioni e di umana dolcezza. Risiede nell’onesto cuore, col quale egli pensa, giudica, parla. Ed è perciò che i sentimenti predominano sugli istinti; è perciò che egli disprezza il pecorismo conformista, tutto ciò che sa di ipocrisia, di cinismo, di calcolo, di viltà.
Detesta i modestini, i meschini, i cretini. Né ha simpatia per i colli torti e i piedi piatti. Non cammina stretto ai muri né i suoi piedi strisciano. Adora la vittoria: non solo su se stesso e sugli altri, ma anche al di sopra di ogni contingenza.
Al di là d’ogni ideologia e fazione, adora la Patria. Cangianti le penne, immutabile il cuore. Cuore di fanciullo. E per questo amore, che è un fuoco fedele, ha saputo in ogni circostanza e ancor più nei tempi di carenza di ideali, mantenersi incorruttibile, vibrando di rampogna contro i maledetti che per ambizione o paura o rancore o “sette denari” si sono prostituiti allo straniero e sputano sul tricolore e sulle medaglie, sulle spalline e sulle stampelle.
La gloria del Corpo ha valicato il secolo. Freddo è il cuore donde sbocciò l’idea. Epperò ancor oggi, dopo cinque generazioni, e in mezzo a tanta mobilità di eventi e di passioni, questi soldati, pensosi e spensierati, pazienti ed impazienti, fermissimi ed irrequieti, remissivi e ribelli, conservano l’antico slancio romantico ed il consueto mordente.
Per quanto il tempo raffreddi e corroda, il bersagliere è oggi com’è stato ieri, come sarà domani. Nella sua armonia, è l’eterno. Solo che, pur conservando l’originaria purezza, il suo è un incessante accanito rifiuto alla consuetudine, all’immobilismo, all’appiattimento.
Si percorra a ritroso il tempo, fino ad attingere alle lontane scaturigini del Corpo, e si vedrà che se fluisce ancora nelle vene del bersagliere l’epica quattrocentesca, è che il suo spirito militare è dovuto più che altro alla tradizione di un secolo e alla educazione di ogni giorno.
Nel suo cappello “largo tondo nero piumato mafioso” che taluni vedrebbero volentieri in una bottega d’antiquariato, è racchiusa una incomparabile storia che fa rivivere tutte le glorie del passato e annunzia tutte le speranze del futuro. Per il bersagliere la tradizione è quello che la forza delle radici è per le piante. Però egli non vive d’inerzia contemplativa. Innamorato del passato, non prigioniero. “Se si credesse grande - direbbe Ugo Ojetti  soltanto perché è antico, sarebbe già un’organismo vecchio. Sarebbe come un nobile che s’addormentasse guardando i grandi ritratti dei suoi antenati”.
Ma il retaggio non è per il bersagliere un ornamento, bensì un’impegno, un motivo di ispirazione. Ed è appunto dal rispetto di esso che deriva il più vivo e spinto spirito di corpo, Il quale significa fede e fiducia, fierezza e onore, solidarietà e gloria.
“Il suo - scrive Emilio De Bono - è uno spirito di corpo egoistico, che confina col feticismo e che è la forza granitica dei bersaglieri”, in quanto salda in lui, individualista per istinto e per impiego, i vincoli di cameratismo: la molla che moltiplica forze ed eroi. Avendo nel sangue il gusto della competizione, egli ambisce di essere primo e più degli altri sul campo di battaglia; ma è pronto a riconoscere senza invidia il valore altrui, come è pronto a far salire gli altri sul suo corpo, perché sia scalata la magica rocca della Vittoria.
Primo sempre.
Perciò gareggia con gli zuavi alla Cernaia, con l’artiglieria austriaca sul Monte Cricol, con gli spagnoli a Barcellona, con gli alpini tedeschi a Stalino, con le truppe marocchine a Bastia, con le camionette polacche a Bologna. Dalla tradizione e dallo spirito di corpo, il punto d’onore; dal punto d’onore, la gloria del protagonista dei più insigni fatti della storia d’Italia. Chi è bersagliere autentico, lo è fino al midollo.
E perciò va, sogna, decide, combatte ed anche scrive in modo differente dagli altri: a ritmo di fanfara. I bersaglieri non hanno età né pensieri. Hanno un’anima e tanti sogni. Se pur divengono vecchi acciaccosi, si mantengono sempre più giovani dei coetanei. Bollente rimane il sangue e intatto l’incantamento dei vent’anni.
Una primavera che mai sfiorisce. In nessun Corpo, in nessun’Arma i vecchi sono così vicini ai giovani. Ce lo dicono Maggiotto e De Bono; ce lo dicono i bianchissimi Prestinari e Sozzani, caduti sull’Altipiano di Asiago arrancando all’assalto, con tre penne e settant’anni.
Questa è l’etica e l’estetica dei bersaglieri, la cui psicologia si può compendiare in una legge: vivere di spirito. Vivere di spirito anche quando la stagione è sterile e l’aura rarefatta. Come l’attuale.
Ecco perché la loro non è soltanto gloria documentata, ma leggenda, favola, mito che cinge i loro cappelli di piume e di lauri, come ai tempi di cappa e spada.

Tratto dal libro (I Bersaglieri dal Mincio al Don) di Nino Tramonti
 
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