Ass. Naz. Bersaglieri Sez. di Desenzano
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Un pò di storia

Bersagliere vuol dire Italia, vuol dire entusiasmo, sangue caldo, allegria, generosità.
Quando occorre, eroismo.
I bersaglieri nacquero in un giorno di giugno del 1836. L'idea era venuta a un capitano dei Granatieri Guardie, Alessandro Ferrero della Marmora, che aveva voluto studiare l'arte militare dopo le campagne di Napoleone. Erano i tempi in cui «la Linea» (la fanteria) si muoveva in ordine chiuso, sparando a comando, lenta, pesante, minacciata dal volteggiare della cavalleria e fulminata dal tiro dell'artiglieria.
Ferrero non era convinto di questi concetti, pensava a un corpo di truppe agili, attente, di buoni tiratori, intelligenti, efficienti soprattutto nella difesa e preziosi nell'attacco. Qualcosa di diverso dai cacciatori, che erano fanteria leggera, impiegati però come fanteria, già esistenti nell'esercito francese, e diversi anche dai Kaiserjaeger e dagli Schuetzen austriaci, dai Rifles inglesi e dagli Jaeger tedeschi e svizzeri. Un concetto che sarà ripreso, parecchi anni dopo, per quel che riguarda la difesa in montagna, da Giuseppe Domenico Perrucchetti, che voleva gli alpini.
Perché i bersaglieri, cioè tiratori di precisione, dovevano, secondo il capitano La Marmora, servire alla difesa in terreno rotto e montagnoso, quale era appunto il Piemonte del 1836. E sulle montagne dovevano sapersi muovere rapidamente, a piccoli gruppi anche isolati, fidando nella loro conoscenza dei luoghi, nella loro rapidità, nella loro abilità al tiro. Un concetto modernissimo, come si legge nella sua «Proposizione» del 1835 quando così si esprime: «I bersaglieri non si devono considerare come una vera e propria truppa leggera, ma piuttosto come un'artiglieria a piccola portata e di grande mobilità».
Un concetto che richiama non solo le batterie a cavallo ideate da suo fratello Alfonso (quello che diventerà ministro e capo del governo e che cadrà in disgrazia dopo Custoza, nel 1866), ma che anticipa, in un certo senso, l'impiego moderno dei bersaglieri corazzati. E, sosteneva Alessandro La Marmora, in funzione anticavalleria: « E’ cosa provata che un soldato con la baionetta in canna, ed esercitato alquanto in quella scherma, non teme di combattere tre soldati a cavallo armati di sciabola, od un lanciere, anche in perfetta pianura ... ».
Quanto all'equipaggiamento, il bersagliere doveva avere prima di tutto un cappello tondo, a tesa larga, che lo riparasse dal morso del sole o dal flagello della pioggia, che riparasse la nuca e il collo, che facesse comodamente da visiera (viene in mente l'elmo del guerriero di Capistrano) e con una «corona di ferro» all'interno, un cerchio metallico che lo proteggesse nel capo dai colpi di sciabola tirati appunto dai cavalleggeri. Siccome il cerchio di ferro nel cappello pesa, sotto si porta un berrettino cremisi di maglia, con un fiocco cremisi, che serve a riparare il capo e si può tirar giù sulle orecchie.
E' l'antenato del fez, e lo si porta sotto il cappello, antenato dell'elmetto. Lo si vede in molti quadri della campagna di Crimea di Gerolamo Induno e in altre raffigurazioni. Ed è proprio in Crimea che per la difficoltà di sostituire questi berretti si ottenne dai turchi alleati una certa quantità di fez cremisi, cui fu tolta l'imbottitura interna e che furono portati flosci, e senza l'ornamento del fiocco. Il fiocco tornarono a portarlo, prima corto, poi lungo come oggi, quando tornarono in patria, a ricordo appunto di quella gloriosa campagna.
A proposito dei cordoni verdi a fiocchi che ancor oggi si portano con l'uniforme di parata, essi risalgono al tempo in cui fu disegnata l'uniforme, e non sono affatto, come vorrebbe una curiosa leggenda, il ricordo di un supplizio che alcuni bersaglieri avrebbero subito per non venir meno al loro onore militare e tradire. I cordoni reggevano, una volta, la fiaschetta della polvere da sparo, e come tali sono rimasti nella tradizione, oggi che la fiaschetta non c'è più.
Dato che, come voleva il progetto di La Marmora, il bersagliere doveva «muoversi sempre a passo accelerato o di corsa per acquistare l'abitudine a fare presto e bene: e le marce dovevano essere «frequenti e lunghe», i pantaloni dovevano essere «grandi ma non troppo, fatti in modo da aprirsi in mezzo alle gambe per non perdere tempo nelle occorrenze. Lo zaino doveva essere semplicissimo, e tale da aprirsi anche senza toglierlo di dosso, con uno scomparto per le cartucce da potersi prendere passandovi semplicemente la mano (le giberne, allora, venivano usate malvolentieri come portamunizioni, e il soldato «se ne serviva come un magazzeno, traendone le cartucce che infila poi fra i bottoni»).
Nello zaino si trova anche il gamellino di rame, che tiene una parte dei tre giorni di provviste, e si elimina così la cucina da campo di squadra («un uomo solo accende e mantiene un fuoco capace di far cuocere 25 di questi gamellini»); il recipiente, che sarà poi la tradizionale gavetta, «sarà meglio di ferro stagnato», e dovrà essere «spazioso assai per farvi cuocere una libbra di carne». Quanto all'arma, lo schioppo è un'arma modificata, una carabina speciale, che si carica dal calcio, con palla che esce forzata, e che ha la stessa precisione di una carabina scanalata (rigata) e ha più forza di essa: «Può sparare persino a 400 passi, mentre la carabina non porta oltre li 300 ed il fucile di munizione ha il tiro inesattissimo al di là di 250. Fornisce 7 colpi in due minuti, e in caso di fretta sino a 10; la carabina, nello stesso tempo, non può fare che 3 o 4 spari ed il fucile di munizione appena 5». Fra le altre qualità, «può fare 100 colpi prima che sia d'uopo lavare la canna (il fucile si carica a stento dopo li 30 spari e la carabina non si carica più dopo li 40). A 200 passi la metà dei colpi devono ferire, per poco sia abile il bersagliere».
Quella della precisione di tiro era un'ossessione di La Marmora: una volta, a Genova, dove era governatore militare, andò a visitare il poligono dove stava addestrandosi il IV Battaglione, e l'ufficiale addetto ordinò il «cessate il fuoco», nel timore che qualche maldestro finisse per mettere a repentaglio l'incolumità del generale. Ma La Marmora reagì in piemontese: «No, ca fassa nen cessé 'l feue; bersaglier da poc, se invece d' colpì 'l bersaglio a colpiss'mi!». (Non faccia cessare il fuoco sarebbe un bersagliere da poco quello che invece di colpire il bersaglio colpisse me!).
Carlo Alberto, dunque, si lasciò convincere, e autorizzò la costituzione di una sola compagnia di bersaglieri, il 18 giugno 1836 e l'anniversario è la festa del Corpo. Si racconta che lo stesso giorno in cui quel piccolo reparto uscì per la prima volta dalla Caserma Ceppi, a Torino, venne condotto a Palazzo Reale per essere presentato al sovrano. Questi, dopo averlo passato in rassegna, salì in carrozza e come era suo programma si avviò alla volta di Genova; ma giunto a Villanova d'Asti, stupefatto si imbatté in un'altra compagnia di bersaglieri che gli rendeva gli onori: L'inattesa apparizione non fu di suo gradimento, per cui rivolgendosi a La Marmora, che era alla testa di quei soldati, lo rimproverò di aver costituito senza consenso una seconda compagnia di bersaglieri. Al che il Nostro, rigido sull'attenti e salutando militarmente, senza tradire alcuna emozione, esclamò: «Maestà, è sempre la stessa, i bersaglieri sono ormai dovunque!». Il capitano La Marmora aveva voluto fare una riprova delle sue teorie, e aveva portato di corsa la sua compagnia attraverso le colline torinesi, in modo da raggiungere la carrozza del sovrano.
Lo ricorda il colonnello Alberto Gennaro su «Rivista Militare».
Nel 1842, i bersaglieri sono ormai un battaglione, e diverranno tre battaglioni entro il 1848. Alla Prima Guerra di Indipendenza parteciperanno con tre compagnie, e a Goito, per la conquista del ponte sul Mincio, cade, gravemente ferito proprio «papà La Marmora»: a cavallo, sciabola sguainata, sta comandando l'attacco, quando viene colto in pieno viso da una palla austriaca che gli fracassa la mascella e che lo fa cadere da cavallo. Ma La Marmora riesce a uccidere a colpi di sciabola un ufficiale nemico che tentava di farlo prigioniero, e poi tornerà a battersi coi suoi ragazzi, con la mascella stretta da un cerchio di ferro, e sarà decorato con la commenda dei Santi Maurizio e Lazzaro.
Il capitano Saverio Griffini, che espugnò il ponte quando sostituì La Marmora ferito, quel giorno, avrà la medaglia d'oro, la prima delle guerre del Risorgimento.
I bersaglieri hanno acceso l'immaginazione degli italiani, e reparti di fanti piumati sorgono dappertutto: porterà il piumotto anche Tito Speri, che sarà impiccato a Belfiore nel 1853, anche Luciano Manara, animatore delle Cinque Giornate di Milano e comandante degli ottocento bersaglieri lombardi, che andrà a morire a Roma a Villa Spada, nel 1849, e a Villa Corsini morirà il capitano dei bersaglieri Enrico Dandolo. La Marmora, durante la seconda campagna del 1849, difenderà a La Cava, presso «la fatal Novara», il ponte sul Ticino, impedendo l'aggiramento dell'esercito sardo.
Ormai i battaglioni piumati sono una decina, e cinque di essi vengono mandati in Crimea, contro la Russia, nel corpo di spedizione guidato da Alfonso La Marmora. Ci va anche Alessandro, destinato a prendere quasi subito il colera. Non c'è rimedio, e «papà La Marmora» muore nelle prime ore del 7 giugno 1855. I suoi bersaglieri, provati dieci giorni dopo dal fuoco terribile dell'artiglieria russa, davanti a Sebastopoli, fecero muro il 16 agosto al grande attacco del principe Gerschakov contro la linea alleata, schierata sul fiume Cernaia.
Si batterono nella nebbia, contro la cavalleria zarista, poi, quando la marea investì le trincee, il tenente Robaudi diede mano alle pietre: il capitano Chiabrero, che comandava il IV Battaglione perché il maggiore era ammalato, esplose nel grido «Fieui, a sassà!» (Ragazzi, a sassate!) e a sassate fermarono il nemico, finché non venne per tutti l'ordine di ripiegare. Poi, poche ore dopo, i bersaglieri contrattaccarono: nel settore francese c'era il V Battaglione, che contrattaccò a sua volta riconquistando il ponte di Trakir, fra gli applausi dei francesi e degli zuavi.
Quando il generale Pellissier chiese agli italiani un ultimo sforzo, per la riconquista di una altura, chiamata ZigZag, il generale La Marmora fece un cenno con la sciabola e disse semplicemente «C'est fait». I bersaglieri di Chiabrera, rimasto ferito gravemente, l'avevano davvero già fatto.
La salma di «papà La Marmora» rimase sepolta in terra di Russia e fu traslata in Italia soltanto nel 1911. Accanto ai camerati francesi, i bersaglieri si batterono ancora nel 1859, fra l'altro a Magenta, quando il maggiore Angelino disobbedì a un ordine, e salvò la giornata alla testa del suo IX Battaglione. Angelino costituiva l'avanguardia della 2ª Divisione del generale Fonti. Quando i francesi chiesero l'appoggio italiano per l'azione, Angelino rispose «la Divisione arriva», poi, invece di attendere che il grosso arrivasse davvero, fece deporre a terra gli zaini e ordinò il passo di carica.
I bersaglieri fecero tre chilometri di corsa fino alle prime case di Magenta, caricarono alla baionetta, e inseguirono gli austriaci, baionetta alle reni, fino a Corbetta. La vittoria, naturalmente, fu attribuita ai francesi.
La storia delle campagne del Risorgimento continua così: Palestro, San Martino (cui presero parte otto battaglioni bersaglieri), Pozzolengo, poi Perugia e Castelfidardo nel 1860, l'assedio di Ancona, e infine la durissima campagna contro il brigantaggio meridionale, dopo l'annessione del Regno delle Due Sicilie. I bersaglieri erano stati ormai organizzati in sei reggimenti, 1° a Cuneo, 2° a Como, 3° a Modena, 4° a Ravenna, 5° a Livorno, 6° a Capua.
E nel 1862, fu un bersagliere che all'Aspromonte dovette fermare Garibaldi: le forze inviate dal governo contro l'Eroe dei due mondi erano agli ordini del colonnello Pallavicini, con due battaglioni di bersaglieri. La canzone che dice: Garibaldi  fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda i bersaglier ha ragione solo in parte.
Garibaldi comandò anche bersaglieri, come Dandolo e Manara, ma all'Aspromonte fu ferito proprio da pallottole di bersagliere. Ma non ne volle al Pallavicini, e, anzi, pochi anni dopo, quando comandò un corpo di spedizione nella Terza Guerra d'Indipendenza, nel 1866, volle avere Pallavicini, ormai generale, ai suoi ordini.
Epica fu la resistenza di tre battaglioni bersaglieri nel ripiegamento della 5ª Divisione verso Valeggio; erano il II, il XIII e l'VIII Battaglione, e resistettero strenuamente, contro un nemico soverchiante, finché tutta la riserva del I Corpo d'Armata e tutta l'artiglieria non furono passate sulla sponda destra del Mincio. E a Custoza, in quella sfortunata giornata, i battaglioni bersaglieri fecero quadrato per compagnia e la spuntarono contro la terribile cavalleria austriaca, proprio come avrebbe voluto La Marmora: anzi, il IV Battaglione decimò col suo tiro mirato ben due squadroni di ulani.
A Roma, i bersaglieri andarono coi generale Cadorna, e il soggetto della breccia di Porta Pia è stato prediletto da vari pittori. In quella occasione cadde, fulminato in testa ai suoi, il maggiore Pagliari.
La storia d'Italia vede i bersaglieri sempre in prima linea, in guerra e in pace, anche in occasione di calamità naturali, come le inondazioni, i terremoti, le epidemie, l'eruzione del Vesuvio, fino al terremoto del Friuli. E nella campagna di Eritrea dal 1885 al 1896 non potevano mancare. Ad Agordat col generale Fara, a Mai Moret col colonnello Stevani, ad Adua, con il generale Arimondi, dove caddero 43 ufficiali dei bersaglieri e un altissimo numero di fanti piurnati. La storia ormai si fa arida, un elenco di combattimenti gloriosi, di morti e di medaglie, di località conquistate a caro prezzo.
I bersaglieri tornarono in Africa durante la campagna di Libia, con l'11° Reggimento e l'8°. Il primo era stato rinforzato con uomini provenienti da altri reggimenti, il 2°, 3°, 5°, 6° e 10°  E quando ci fu la controffensiva araba, rifulse il valore dell'11° a Sciara Sciat. Fu un brutto episodio, un improvviso voltafaccia di arabi e turchi che già avevano fatto buon viso all'arrivo degli italiani, e avevano accettato da questi il rancio fraternamente diviso. Otto ore di combattimento, dopo le quali i turcoarabi dovettero abbandonare l'oasi. Ma la vittoria fu conseguita a un prezzo carissimo: non ci furono superstiti fra coloro che erano caduti in mani nemiche: li ritrovarono fatti a pezzi, crocifissi, squartati, torturati in maniera atroce.
Poi vengono AinZara, Bir Tobraz, Sidi Said, Sidi Alì, Zuara, Zanzur, Bengasi (dove era arrivato il 4° Bersaglieri, costituito anche da elementi del 2° e del 7°), le Due Palme, Rodi, dove tornò a battersi il 4°, Homs, dove si batté valorosamente l'8°, El Nergheb, Assaba, finché nel 1915 furono mandati in colonia altri battaglioni, e il I° Reggimento al completo.
Nel 1915, quando scoppiò la guerra contro l'AustriaUngheria, i bersaglieri si moltiplicarono: erano già nati i battaglioni ciclisti, uno per ciascuno dei 12 reggimenti, poi, nel novembre, si costituì il 13° Reggimento, mentre nel 1916 i reggimenti salirono a 16 e nell'ottobre del 1917 a 21. Nel primo periodo della Grande Guerra, fu costituita una divisione speciale bersaglieri, su due brigate: I (6° e 12°), II (prima 9° e 11° e successivamente, nel 1917, (7° e 11° ).
In questa guerra, contro ogni regola, i bersaglieri, che avrebbero dovuto operare a battaglioni, furono impiegati a reggimenti e a divisioni. Erano ancora i tempi in cui si credeva alle «azioni alla garibaldina», anche se in Libia s'era sperimentata l'efficienza delle mitragliatrici nella difesa. Ora, sul fronte dell'Isonzo, i bersaglieri conobbero i reticolati di filo spinato.
Il 10° Reggimento, intanto, dal dicembre del 1914, si trova in Albania e nel 1915 contribuirà al salvataggio dell'esercito serbo. Nel settore della 2a Armata, oltre l'Isonzo, dove gli alpini conquisteranno il Monte Nero, ai bersaglieri, viene dato l'ordine di prendere il Monte Mrzli: sono milletrecento metri di salita fra i sassi: tocca al 12°, comandato dal colonnello Eugenio De Rossi, che ha già ricevuto la nomina a generale e che dovrebbe assumere il comando della Brigata Cagliari.
Ma De Rossi non lascerà soli i suoi ragazzi: mette l'aigrette, il pennacchio bianco dei comandanti di reggimento, sul cappello piumato, perché i suoi lo riconoscano, e «va su» con loro. Il tenente colonnello Pericle Negrotto, alla testa del XXIII Battaglione, è arrivato ai reticolati: leva il cappello piumato in cima alla sciabola e lo getta oltre l'ostacolo spinoso, gridando «Avanti bersaglieri, quella è la vostra bandiera!». Ma non riesce ad andare avanti, e cade falciato dal piombo nemico.
Le regole della guerra imporrebbero una sosta, davanti ai reticolati, in attesa che l'artiglieria li distrugga, ma i bersaglieri non aspettano. Vengono sotto con De Rossi in testa, che agita il proprio cappello con l'aigrette. E dove va il padre, perché il colonnello è il «papà» del reggimento, i figlioli lo seguono.


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