Quelle piume che ondeggiano
sul cappello nero sono il simbolo che richiama al cuore
il nome, l'idea, le gesta di Alessandro La Marmora: uno
dei primi fra i grandi figli della Patria, a rischiarare
con lo splendore delle armi il risorgere d'Italia.
Se l'artefice della geniale istituzione è tuttora
riguardato con una specie di culto, non è solamente
perché visse per la Patria e per la Patria morì,
ma anche perché all'apparire dell'aurora nazionale,
quasi rispondendo a una imprescindibile esigenza storica,
con la sua creazione percorse gli sviluppi della tattica
e i progressi della tecnica, interpretando spirito, esigenze,
possibilità della fanteria. A guerra italiana seppe
dare il più italiano dei soldati.
Con i bersaglieri l'esercito piemontese divenne italiano;
l'esercito italiano ritrovò se stesso. La Patria
ricevette un fante; la fanteria, un'anima. Nobile ferrea
gente piemontese, i La Marmora.
Grande il loro nome e glorioso per fecondità d'ingegni
e valore di fatti. Da un padre soldato, Celestino Ferrero,
marchese della Marmora, Capitano nel reggimento d'Ivrea
e da Raffaella Argentero, contessa di Bersezio, nacquero
tredici figli, sette dei quali come i sette fratelli
Brunetta d'Usseaux abbracciarono la carriera delle
armi: « sette spade concordi per la redenzione italiana
». Quattro divennero generali: Carlo Emanuele, primo
scudiere di Carlo Alberto nel 1848-49; Alberto, scienziato
insigne; Alessandro, celebre per l'istituzione dei bersaglieri;
Alfonso, statista, comandante delle forze piemontesi in
Crimea e capo di S. M. nelle campagne del 1849 e 1866.
Alessandro aprì gli occhi alla luce in Torino,
il 27 marzo del 1799. Nel tempo più propizio. Fin
dai più giovani anni manifestò trasporto
per le armi, fierezza d'indole e di costumi, e un volere
intenso indomabile, che mai smentì in una ininterrotta
serie di chiari fatti che illuminano il romantico secolo
in cui visse.
Fanciullo era ancora quando, come paggio dell'Imperatore,
fu addetto alla corte del principe Borghese, governatore
del Piemonte. Nel luglio del 1814 la Monarchia sabauda
ristabilita cinse la spada: V. Emanuele I lo nominò
Sottotenente nel reggimento Granatieri Guardie. Voglioso
di rischi e di paura inconsapevole, nel 1815 ottiene di
sostituire il vecchio portainsegna di un battaglione «
Guardie » destinato ad operare contro Napoleone
sbarcato a Cannes, e partecipa alla breve campagna di
Savoia. Ma per l'improvvisa Waterloo ritorna in Piemonte.
Nel 1823 è Capitano.
Il suo primo progetto per la istituzione di un Corpo speciale
nell'uniforme e nell'impiego, risale al 1831. In quel
tempo, le fanterie, più che manovrare, marciavano
con ordine geometrico e fitto. Lo stesso automatismo degli
eserciti di Gustavo Adolfo e di Federico II. Né
i Piemontesi avevano formazioni più snelle o evoluzioni
più spedite.
Nel 1838 l'istruzione tattica non parlerà ancora
di assalto alla baionetta! Ciò spiega perché
La Marmora vagheggiasse un soldato non impigliato nei
lacci delle rigide forme, ma « al manovrar leggiero
ed al tirar preciso». Dopo aver scritto al fratello
Alfonso: « Il soldato non sa tirare, non marcia
né sa di manovra, e lo si fa tutto il giorno lucidare...
», presenta la sua proposta. Ma l'aspettazione va
delusa.
Tempra irremovibile, non si disanima. Per quattro anni
ancora sta fermo e paziente (lui, l'insofferente d'indugi!)
al suo progetto e ad ogni alba si ripropone il proprio
fine, ritoccando con amore infaticabile l'opera sua. Poi,
torna ad avanzare la « Proposizione per la formazione
di una compagnia di bersaglieri e modello di uno schioppo
per l'uso loro ».
Nel desiderio di nulla omettere per giovare alla Patria,
col suo ingegno eclettico ed inventivo aveva costruito
anche una speciale carabina, affinché la più
bella fanteria avesse la migliore arma. Non diversamente
da Giovanni delle Bande Nere il quale aveva munito di
schioppo leggiero gli archibugieri montati: fanteria mobile
da lui ideata. Nella pittoresca uniforme, presentò
a Carlo Alberto un caporale furiere del 1° reggimento
« Guardie »: Vayra, e non gli fu difficile
d'insinuare nel cuore del Re la sua idea, che era innovazione
e riscatto insieme.
Come di Paganini si disse che, con il suo fluido, seppe
strappare al violino quel che nessuno aveva mai ottenuto
da quelle corde, così La Marmora, con la sua audace
concezione, seppe staccare dal plumbeo e impacciato formalismo
il fante piemontese, facendo della specialità piumata
l'emblema della fanteria e della Patria. Non truppe da
parata né impalcatura di fuochi artificiali, ma
strumento di schietto acciaio, donde in ogni guerra da
tante piccole unità venne lo stupore di tante grandi
imprese.
La virtù ha resistito alle prove di un secolo e
mezzo; la gloria, al confronto dei soldati di più
celebrato valore, sicché degne sono le «fiamme
cremisi » d'oggi delle vecchie tuniche nere, anche
se i tempi d'oggi di quei tempi degni non sono. Nel suo
eccezionale dinamismo, viaggiando in Francia, Inghilterra,
Baviera, Sassonia, Svizzera, Tirolo, per studiare armi,
ordini, istruzioni delle milizie scelte dei vari eserciti,
La Marmora aveva minutamente osservato le fanterie leggiere
di quegli Stati: il tirailleur francese, il rifleman britannico,
lo Jáger tedesco e lo Schutzen austriaco, tutte
esperte nel tiro e nel combattere alla spicciolata.
Critica astiosa parlò di imitazione; ma, anche
ammettendo che le fanterie straniere ed i « Bersaglieri
bresciani » del Col. Gambara (1805), abbiano potuto
influenzarlo nella italianissima concezione, la sua idea
di tanto avanzò i modelli che può dirsi
squisitamente creatrice. Infatti, se creativa è
l'attività del pensiero che risolve in sé
le soluzioni precedenti senza annullarle, però
superandole, La Marmora è un creatore.
Lo è per aver saputo trarre il suo inimitabile
capolavoro: un organismo bello e vivo, quasi dal nulla,
attingendo soprattutto dal suo cuore; lo è per
aver saputo, oltre a ridestare il fascino degli antichi
veliti, preannunciare lo stile delle « Camicie rosse
» e delle « Fiamme nere ». Per questo,
La Marmora può esser considerato un vero «
maestro di fanteria »: maestro di fanteria e di
spirito, in quanto col suo animo lirico egli volle far
leva sulla illimitata fiducia in sé del bersagliere,
donde uno spirito di corpo inteso come punto d'onore e
amor santo di gloria.
E se nel suo « Decalogo » due volte troviamo
la parola «onore » è che, al pari di
Carlomagno, « primo facitor dei paladini »,
egli, « facitore » dei bersaglieri, questa
augusta parola lasciò a' suoi « figlioli
» per regola e retaggio. Onore. Scrive Simone P.
Mattei: « Le nuove divise, che portavano i colori
della morte, le piume svolazzanti, le sciabole ricurve,
la rapida carabina, muovevano ammirazione ed invidia.
Eppure questi simboli e queste armi non erano, in verità,
che un modesto rivestimento dei beni, assai più
nobili, che il Capitano della brigata Guardie, con tenacia
e con affetto, stampava nel cuore dei suoi ragazzi. Questi
beni si tradussero in virtù su i campi di battaglia;
diventarono alla lunga, tradizioni e gli episodi che ne
nacquero sono ripetuti oggi dai vecchi come leggenda.
Alessandro La Marmora, in effetti, nulla aveva creato
e nulla insegnato ai suoi uomini.
Egli aveva soltanto dato una nuova giubba al loro ardore
ed aveva lasciato che questo ardore sopravanzasse il passo
di marcia che mai sembra troppo veloce al desiderio che
spinge il piede degli Italiani. Aveva loro ricordato il
sentimento della famiglia, l'amor di Patria, il rispetto,
il cameratismo e la fiducia in sé fino alla presunzione.
Egli aveva imposto un regolamento che esaltava i beni
naturali della nostra razza; con quel regolamento, svelò
gli Italiani a loro stessi e gli Italiani al mondo intero
».
L'atto di nascita dei bersaglieri è legato al 18
giugno del 1836; e, con « provvisione » di
Carlo Alberto, Re di Piemonte e di Sardegna, il 21 giugno,
« il Sig. Cav. Della Marmora, Capitano con grado
di Maggiore nel reggimento Granatieri della brigata Guardie
», è nominato « Maggiore comandante
il nuovo Corpo de li bersaglieri ».
Costituirono la prima compagnia un centinaio di giovani
dai 19 ai 25 anni, di armoniosa complessione, agili di
membra e forti, d'intelligenza pronta e chiara, «
fatti alle marce », esperti nel tiro e capaci di
essere « impegnosi all'occasione, senza però
essere troppo impetuosi ». Ai primi di giugno usciva
dalla Caserma Ceppi, in via D'Angennes (Torino) una compagnia
di bersaglieri in grande tenuta e si recava in piazza
d'armi per essere passata in rivista da S. M. il Re Carlo
Alberto. Di una di quelle uscite, così scrisse
il Gen. Carlo Corsi: « Una mattina, in sulla strada
là, udii un infernale disaccordo di stridule trombette
che pareva suonassero a fuoco, e vidi sfilarmi dinanzi,
in un minuto, un quattrocento di quei diavoli turchini.
Andavano a passo speditissimo, quasi a slanci, curvi sotto
il peso di enormi zaini, con le carabine in bilancia.
Tutto quello scuro, quei neri pennacchi svolazzanti, quello
stridere di trombe e quel passo precipitoso e risoluto,
avevano un certo che di tempesta da scuotere i nervi ed
infiammare un giovane quale io ero allora... ».
La costituzione della seconda compagnia risale al 1837;
ma solo nel 1839 La Marmora vide adottata la sua rapida
carabina, ossia realizzato in pieno il suo sogno. Ben
presto tecnici francesi e prussiani avrebbero riconosciuto
l'efficienza de' suoi bersaglieri e la bontà del
suo metodo formativo, non meno che addestrativo.
Tuttavia, la nuova creatura fu minacciata di soffocazione
fin dalla culla. Ma al gusto della concretezza La Marmora
univa tenacia piemontese, e vinse contro l'ostilità
dei tardivi. Instabile di corpo e vivace, ma di volontà
ferma; e finì con l'imporsi.
Colonnello nel 1844 con questo grado guidò sui
campi di Lombardia la bella gente nella quale egli aveva
saputo trasfondere l'ardore dell'animo suo e nella quale
vedeva l'immensa anima del popolo italiano. Il suo entusiasmo
fu, del resto, ricambiato dal fervore e dall'affetto,
di quella « masnada di scavezzacolli » che,
sapendo il suo cuore e sentendo il contagio della sua
grandezza, lo elessero loro papà: « papà
Sandrin ».
1848: è finita la storia del Piemonte; la storia
d'Italia comincia. Nella prima guerra per l'indipendenza,
i primi ad attaccar battaglia sono i bersaglieri. La realtà
supera l'idea. L'8 aprile, contro i Cacciatori della brigata
Wohlgernuth, una delle più temute fanterie leggiere
d'Europa, la figura di La Marmora corpo snello, profilo
d'aquila, pizzo all'italiana, occhio acuto e ridente
che conduce al battesimo di gloria una schiera irta di
punte e mareggiante di piume, si staglia imperiosa nell'orizzonte
militare.
Al ponte di Goito, un colpo di fucile gli spezza la mandibola
destra, uscendo al disopra dell'orecchio, un ufficiale
tirolese si avventa su di lui, e lo rovescia da cavallo,
ma egli, nonostante la grave ferita, cala un fendente
e lo mette fuori combattimento. Col suo sangue egli consacra
il decreto del 18 di giugno e dimostra come direbbe
Goethe che « il suo primo capolavoro è
se stesso ». E' questa la terza ferita al volto.
Nondimeno, egli rimane alla testa dei suoi, e soltanto
a conseguita vittoria si farà medicare, salvo a
rimontare a cavallo ed a partecipare, il 18 luglio, «
con un cerchio di ferro che dalla nuca gli passa sotto
il mento », al fatto d'armi di Governolo, acquistando
insieme ai bersaglieri splendida rinomanza.
Di qui l'ascesa della formazione scaturita dal suo pensiero,
La Marmora andò fierissimo ed ebbe, anzi, dopo
la superba prova da essa fornita nel 1848, parole risentite
per coloro che, dopo averlo osteggiato in pace, a lui
si erano rivolti in battaglia per averne soccorso. «
E poi tutti vogliono i miei bersaglieri egli scriveva
al fratello dopo avermi contraddetto in tutto ».
Ed ancora: «Tutta l'Armata voleva bersaglieri, tutti
volevano farsi bersaglieri, i Corpi di linea si volevano
istruire in bersaglieri ... ; ed il continuo uso ed abuso
che si fece di quelle compagnie prova che era sentita
da tutti la necessità di accrescere quell'Arma
sopra una grande scala ». Vien fatto di ricordare
le parole di Bixio: « Tutti coloro che mi voglion
morto, ed ammazzar sempre, mi vengono poi, dopo il combattimento,
a serrar la mano ».
Nel '49, ripresa la guerra, è capo di S. M. generale
della Reale Armata; ma allorché la battaglia volge
al peggio, sospinto com'è da sete d'azione, si
pone innanzi a rannodar le truppe e a contenere il nemico.
Il 22 marzo, a Mortara mentre conduce due battaglioni
del 7° Fanteria a rinforzo della Divisione Durando,
è ferito alla gamba destra. Per raggiungere il
quartier generale deve aprirsi la via con la sciabola.
Il giorno dopo, informato che il nemico sta per entrare
in Novara, inforca un aspro cavallo e, seguito da due
bersaglieri, si slancia oltre il ponte di Mortara, dove
fronte crucciosa, piume arruffate come quelle del falco
nell'improvvisa calata si pianta di faccia al nemico,
simile ad acheo chiomato pronto a dar battaglia. Nel vespero
sanguigno, tale è lo stupore degli Austriaci a
veder quel soldato nero, ammantellato, il quale prende
sopra di sé ogni rischio, che lungamente rimangono
irresolute, nel sospetto di un agguato.
Volgendosi a questo accorgimento, egli dà tempo
all'Esercito vinto di sgomberare Novara, donde ultimo
si ritira. Una medaglia d'argento fregia il suo valore.
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