Alla fine Ceccherini dovette
ordinare il ripiegamento «e senza voltare le spalle!
»: lui e pochi altri, cinque ufficiali su diciotto,
e duecento uomini, assieme a cinque ufficiali e 297 uomini
dell'VIII. «Hanno visto le streghe», commentò
un ufficiale degli alpini nel vederli tornare.
Il San Michele, tomba dei bersaglieri ciclisti, fu conquistato
un anno dopo, il 6 agosto 1916, e fu tenuto perché
altri tre battaglioni bersaglieri ciclisti, il III, IV
e XI attaccarono e tennero Quota 85, verso Monfalcone.
Su Quota 85 cadde Enrico Toti, attendente tuttofare del
tenente colonnello Paride Razzini, comandante del III.
Ferroviere, mutilato di una gamba in un incidente, Enrico
Toti aveva voluto arruolarsi volontario: in bicicletta
sapeva andare anche con una gamba sola. E all'assalto
volle andare con la stampella; ferito due volte, arrivò
fino a una trincea, dove, colpito una terza volta, compì
il gesto leggendario di scagliare contro il nemico la
stampella ormai inutile.
Dei tre battaglioni rimasero vivi circa duecento uomini,
agli ordini di un capitano di 23 anni, Ugo Montemurro,
che ritroveremo colonnello in Libia, nel 1941, con l'8°
bersaglieri.
Il III Battaglione, che aveva perduto 15 ufficiali e 326
uomini, ebbe la medaglia d'oro. Fu una guerra di orrori,
in trincea, per tutti i fanti piumati che avevano sognato
l'ebbrezza dell'assalto con la tromba che suona la carica.
La guerra cambiava, e gli uomini morivano sui reticolati,
falciati dalle mitragliatrici, dalle granate, dai gas.
Combatterono in montagna, in pianura, nelle vallate, fra
le petraie del Carso, fra i ghiaieti dei fiumi, sotto
il sole, la neve, la pioggia di Caporetto.
E nelle buie giornate di Caporetto la I e la V Brigata
si fecero maciullare sul Globocak per permettere il ripiegamento
del XXVI Corpo d'Armata. E fu un bersagliere ciclista,
appostato fra i cespugli della strada, a fulminare con
una fucilata il generale tedesco Albert von Berrer, comandante
del LI Corpo, che stava per entrare in Udine alla testa
dei suoi uomini. Sul Grappa e sul Piave, ancora bersaglieri,
compresi quelli delle fiamme cremisi del IX Reparto d'Assalto
che in dieci minuti riconquistarono Col Moschin, catturando
250 prigionieri, 27 ufficiali e 17 mitragliatrici, e quelli
del I° Reggimento, richiamati dalla Tripolitania e
mandati a battersi sul Piave.
Otto medaglie d'oro alla battaglia del Piave, primi a
Vittorio Veneto, a Gorizia e a Trieste, ultimi a lasciare
la lotta: l'ultimo caduto è il sottotenente Alberto
Riva di Villasanta, volontario di 18 anni, sardo, falciato
alle ore 15 del 4 novembre da una raffica di mitragliatrice.
Sono gli ultimi minuti della guerra, fra Ronchi e Monfalcone,
davanti ad Aris, gli Honved ungheresi resistono rabbiosamente,
e li spazza una carica di cavalleggeri di Aquila e di
fiamme cremisi. Cade, sotto una raffica, il giovane sardo,
già decorato più volte. Sarà lultima
medaglia d'oro di questa guerra.
Che tragico bilancio: su 210.000 bersaglieri mobilitati,
32.000 furono i morti e 50.000 e più i feriti e
i mutilati. Un firmamento di medaglie per questi eroi:
92 ordini militari di Savoia, 50 medaglie d'oro, 2.592
d'argento, 3.784 di bronzo, 1.687 croci di guerra. Ricompense
collettive: 21 ordini militari di Savoia, tre medaglie
d'oro (al 3°, al 18° e al XXIII Reparto d'Assalto),
16 d'argento e 16 di bronzo. Fra le due guerre mondiali,
il fascismo cercò di rubare, letteralmente, ai
bersaglieri, lo spirito, la disciplina e la fierezza,
i canti, i motti, le tradizioni. Mussolini era stato bersagliere,
lo era stato anche uno dei Quadrumviri della marcia su
Roma, Emilio De Bono, e anche il segretario del partito
Achille Starace.
Si è detto dopo la guerra che i bersaglieri sono
stati fascisti. In realtà, sono stati sempre e
soltanto bersaglieri; erano i fascisti a darsi quell'aria
bersaglieresca, che finì, come sappiamo, nel ridicolo.
Quando si trattò di andare a conquistare quello
che Mussolini chiamava «un posto al sole»,
anche i bersaglieri fecero con onore la loro parte: il
3° Reggimento, comandato dal colonnello De Simone,
fu successivamente rinforzato con l'LXXXIII battaglione
complementi del proprio deposito del I°.
Si batté sul Tigrai, a Belesat e all'Endertà,
poi, quando Badoglio volle occupare Gondar, ci andò
il 3°, in una marcia che divenne epica per le difficoltà,
anche se le perdite subite dalla colonna da Om Ager a
Gondar si limitarono a sei morti e sette feriti. Le difficoltà
erano tali che, come ricorda Giovanni Artieri, una tappa
di 15 chilometri in un giorno era considerata un primato.
Occupata Gondar, la colonna si spinse oltre, fino al Lago
Tana, fino all'occupazione di Gorgorà e di Bahr
Dar, a 160 chilometri di distanza, e di Debra Marcos,
fino a raggiungere le sorgenti del Nilo Azzurro.
I molti gerarchi fascisti, con Starace in testa, segretario
del partito, si arrogarono buona parte del merito. Comunque
è il caso di ribadire che anche nel periodo fascista,
i bersaglieri restarono prima e soprattutto fedeli all'insegnamento
di La Marmora; e non fu certo per brama di avventura che
accorsero concordi quando il Paese tornò ad avere
bisogno di loro. Restando in Africa Orientale, ricordiamo
un episodio solo, quello del colonnello Mario Gonella,
veterano del Carso, comandante della roccaforte isolata
di Uolkefit, a tremila metri d'altezza.
Quando dovette cedere, il suo avversario, il maggiore
inglese Ringrose, gli fece pervenire il seguente messaggio:
«La bravura e l'eroismo della resistenza opposta
dai vostri ufficiali e dai vostri uomini di fronte al
fuoco di artiglieria, attacchi aerei, fame e privazioni
sono oggetto di ammirazione per l'armata britannica; sarà
per me un onore potervi incontrare quando tornerà
la pace». Ricordiamo anche il generale Guglielmo
Nasi, bersagliere, che difese il suo presidio per 165
giorni contro forze soverchianti e ottenne gli onori alla
bandiera e alla guarnigione, dopo aver perduto 950 uomini
dei 3.500 che aveva. E il colonnello Nino Tramonti, l'ultimo
italiano a cessare la lotta in tutta l'Africa. Evase tre
volte dai campi di prigionia inglesi per organizzare movimenti
di resistenza e fu decorato con due medaglie d'argento.
La Seconda Guerra Mondiale vide impegnati tutti e dodici
i reggimenti bersaglieri del nuovo inquadramento. Sarebbe
troppo lungo descriverne le gesta, occorrerebbe lo spazio
di un libro, e in proposito hanno scritto già in
tanti. Si finirà inevitabilmente nella retorica,
ma è impossibile evitarlo, tenendo presente la
sproporzione dei mezzi e delle forze: i bersaglieri hanno
versato con onore il loro sangue sul fronte africano,
con i reggimenti 5°, 7°, 8°, 9°, 10°
e 12°; in Grecia si batterono il 1°, 2°, 4°
e 5° reggimento, mentre il 3° e il 6° andarono
a morire in terra di Russia, l'11° nei Balcani, dove
divise con il 6°, trasferito poi al fronte russo,
l'orrore della guerriglia partigiana.
Vale la pena di ricordare, però, un episodio spesso
ignorato: i bersaglieri fecero il possibile per sottrarre
ai tedeschi gli ebrei. Nel Montenegro 5.000 israeliti
furono salvati dalla furia nazista, mentre in Serbia la
popolazione fu protetta dai bersaglieri, contro la furia
selvaggia degli ustascia croati di Ante Pavelic. In Africa
Settentrionale i bersaglieri andarono col solito moschetto
91, con la mitragliatrice leggera Breda 30, che si inceppava
nella sabbia (e si inceppava anche al gelo di Russia e
Albania), con il controcarro 47/32 che fece meraviglie.
Ma ci andarono sempre col loro cuore e la loro audacia,
entusiasmando anche Rommel, il quale notò con quale
disparità di mezzi combattessero i fanti piumati
accanto ai suoi dell'Afrika Korps e commentò: «Il
soldato tedesco ha meravigliato il mondo; il bersagliere
ha meravigliato il soldato tedesco».
Poi la frase fu giustamente parafrasata, sostituendo «bersagliere»
con «soldato italiano», ma la sostanza rimane.
Rommel decorò personalmente con la Croce di Ferro
di prima classe il colonnello Ugo
Montemurro, comandante della «Colonna M»
dell'Ottavo bersaglieri, per l'azione a El Mechili, in
cui fu sgominata la 2° Divisione Corazzata britannica
e furono i bersaglieri a catturare il generale Gambier
Perry, il primo generale inglese che si sia mai arreso
agli italiani.
Ricordiamo qualche nome di quel fronte infuocato: Bir
El Gobi, Alfaya, Qattara, El Alamein, tomba del 9°
e del 12° bersaglieri, Bardia, Sollum, Tobruk, la
linea del Mareth, e poi l'orrore della campagna di Tunisia,
che vide l'olocausto del 5° e del 10° Reggimento
(deposero le armi quando erano ridotti ciascuno a una
compagnia), del 7°, che fu sciolto e i superstiti
furono incorporati con i resti dell'8°; ricordiamo
il gesto disperato di un ragazzo, il caporale Aurelio
Zamboni, del 9° bersaglieri, che, quando una granata
nemica gli troncò un braccio, lo afferrò
scagliandolo contro il nemico mentre i suoi compagni scattavano
al contrattacco.
In Russia andarono il 3° e il 6°: il 3° era
«ciclista», e i tedeschi ridevano.
Ma su quelle biciclette, e a piedi, i bersaglieri percorsero
più di duemila chilometri, dal confine ucraino
al Don, affrontando nove cicli operativi: Dniepr, Stalino,
dove entrarono per primi, davanti alle truppe motorizzate
tedesche, Kriwoj Toresch, Rjikowo, Gorlowka, la «battaglia
di Natale», Iwanowka, Serafimowitsch, Jagodnji.
Da Gorlowka, nel novembre del 1941, il XVIII e il XX Battaglione
riescono a sbloccare la colonna Chiaramonti dell'80°
Fanteria, circondata a Nikitowka dalla 4ª Divisione
sovietica: «Se non c'eravate voi, saremmo morti
tutti», è il commento dei fanti. A Serafimowitsch
cade, con un ginocchio fracassato, il colonnello Aminto
Caretto, un «papà» di quelli duri,
un «bravo» detto da lui è meglio di
una medaglia.
E come Ceccherini sul San Michele, Caretto va avanti a
tutti, agitando il bastone, finché non cadrà
colpito. Morirà molti giorni dopo, divorato dalla
cancrena, senza un lamento, in un ospedale. Ma i suoi
ragazzi hanno preso Serafimowitsch. Il 3° è
il Reggimento più decorato d'Italia: due Ordini
militari, tre medaglie d'oro, tre d'argento, tre di bronzo.
Il 6°, «morto in Russia» è stato
l'ultimo reparto delle truppe italotedesche a cessare
la resistenza, e si è dimostrato, come ricorda
la motivazione della seconda medaglia d'oro meritata in
Russia, «fedele al motto... e vincere bisogna».
Alla guerra di liberazione hanno partecipato anche i bersaglieri,
sia nei Balcani, con la Divisione partigiana «Garibaldi»,
sia sul fronte italiano, nel settembre 1944 si costituisce
il Battaglione «Goito», con i bersaglieri
del LI Battaglione allievi ufficiali di complemento, che
si era battuto col I° raggruppamento motorizzato a
Monte Lungo, con i battaglioni XXIX e XXXIII del 4°
e la prima compagnia motociclisti del C.I.L. che avevano
combattuto a Monte Marrone e sulle Mainarde, a Monte Mare,
al monte Granale di Jesi, a Urbino e a Urbania.
Il «Goito», inquadrato nel reggimento fanteria
speciale del Gruppo di combattimento «Legnano»,
si batterà a Poggio Scanno, e sarà fra i
primi reparti che entrano a Bologna, nell'aprile del 1945,
meritandosi la medaglia d'argento.
Dopo la guerra, vengono ricostituiti alcuni reggimenti
bersaglieri: il I°, che si chiamerà I°
Reggimento Bersaglieri Corazzato, l'1 gennaio 1953; il
3°, l'1 luglio 1946; l'8° il 15 settembre 1949;
vengono ricostituiti anche numerosi battaglioni, poi,
nel quadro del nuovo ordinamento dell'esercito, i reggimenti
scompaiono, e le bandiere e le tradizioni dei reparti
vengono trasmesse ad alcuni battaglioni, che fanno parte
di brigate corazzate e motorizzate
inquadrate nelle divisioni.
a cura di Leonardo Lunardi
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