Quel
giorno sono stato colto da una sensazione particolare,
molto particolare. Cerco di inquadrare la scena. Pomeriggio
di fine agosto: un caldo umido, atmosfera velata, nuvole
più o meno fitte, si intuisce qualche piovasco
lontano. Luogo: il Montello, media collina stesa ai piedi
delle Prealpi, che si protende verso Est partendo da Montebelluna
fino a toccare un’ansa del Piave. Salgo sul versante
che guarda il fiume, nel comune di Nervesa della Battaglia.
Una stradina tra boschetti di conifere. A mezza costa
spicca una grande costruzione bianca, in parte incassata
nel terreno, composta da un corpo cubico sormontato da
un torrione. E’ un mausoleo, il Sacrario Militare
del Montello.
Ai suoi piedi c’è un piazzale circondato
da abeti e vecchi cannoni, una balconata sulla valle del
Piave. Sebbene manchi ancora un’ora all’apertura
il custode, vedendomi arrivare in auto, si affretta a
togliere la catena ed aprire i pesanti portoni di bronzo
che chiudono l’ingresso del basamento. Salgo una
ripida scalinata, con in testa il mio bravo piumetto,
ed entro nel cuore del Sacrario. Al centro si trova un
complesso di scalinate e su tutto il perimetro vi sono
gallerie concentriche tappezzate di loculi, più
di 9.500 spiega un’iscrizione all’entrata.
Migliaia di nomi, tanti ignoti, qualche lapide si fregia
di una medaglia. Attraverso le scale salgo ai piani superiori,
dove è stato allestito un piccolo museo. Viene
descritta la storia del campo di battaglia del Piave,
dalla ritirata del ’17 all’ultima vittoriosa
offensiva dell’ottobre ’18. Pistole, fucili,
proiettili, cimeli vari. Effetti personali raccolti qua
e là: un mazzo di carte, un diario, un paio di
occhiali, molte fotografie sbiadite. Una bandiera tricolore
sforacchiata fa la guardia al piccolo altare dove, ogni
anno, il 4 Novembre si celebra la S. Messa. Il tutto è
molto ben curato e pulito, si vede che è stato
restaurato da poco. In un angolo c’è persino
una postazione multimediale, dove un CD-Rom è pronto
a fare da cicerone. Salgo ancora e arrivo nella torre,
che è tutta vuota. Sul tetto, un lucernario illumina
il giro-scale e l’accesso al sacello. Dalle finestre,
nelle giornate limpide (non certo come oggi), lo sguardo
può volare fino al Friuli ed a Venezia, distante
solo poche decine di chilometri in linea d’aria.
Sono in una colossale, magniloquente tomba; ne ho visitate
tante, ma qui c’è qualcosa di diverso. C’è
pace, serenità, luce. Non come in altri cimiteri
militari, pieni di ossa in bella mostra. Non certo come
in tante chiese, semplici e tetre raccolte di teschi,
scheletri ed immagini lugubri o raccapriccianti. Non è
fredda ed anonima, sui muri non sono riportate frasi altisonanti
e retoriche. Sono in mezzo alla Morte, ma l’atmosfera
non è letale. È una retrovia, un luogo di
riposo, un ritrovo di amici, che magari non si conoscevano
e si sono incontrati col fucile in mano sulla sponda di
un fiume. Quel fiume che, a distanza di più di
80 anni e dietro lastre di marmo, continuano a vegliare.
Dicevo all’inizio di una sensazione strana…il
silenzio. Il posto è lontano dalle grandi vie di
comunicazione, la ferrovia non lo tocca, le rotte aeree
non passano di qui. I paesi giù nella pianura contano
poche anime e la campagna è coperta di vigne, si
sente qualche trattore, ma è lontano. Se non fosse
per i pali elettrici, le antenne TV e qualche casa nuova
di zecca, non sembrerebbe di essere nel XXI Secolo. Il
silenzio tutto attorno…se proprio dovessi descrivere
questo attimo come la scena di un film, userei come colonna
sonora un sottofondo vellutato ed etereo di archi con
qualche nota isolata di pianoforte…musica tranquilla…distesa.
Mi pare di essere sospeso, di galleggiare a mezz’aria
come un uccello. Come sono distante dalla frenesia del
2002! Com’è tutto diverso visto da quassù!
Oggi, il rischio è una serata da sballo che si
conclude spesso in una gara spericolata in auto. Anzi,
termina con un’ auto spalmata su di un platano.
Allora, le serate erano tutte uguali, il turno di guardia
sull’avamposto ti toccava pure di sabato. Ma del
resto, che altro c’era da fare, se non starsene
seduti in trincea a raccontarsela, a parlare di cascine,
orti, morose e figli; a maledire Cecco Beppe, la neve
che cadeva ed il gelo che tagliava la faccia, che novità
per i siciliani sbattuti sul Grappa!
Ogni epoca ha le sue follie collettive: fino a 50 anni
fa, pigliavano armi e bagagli e salivano in montagna,
a spararsi addosso per una linea di confine mal tracciata,
mentre oggi ci accoltelliamo per un rigore non concesso:
i nostri nonni avranno avuto torto, ma non per questo
abbiamo ragione noi. Il buonsenso è morto sui reticolati
del Carso? Pare di sì.
E così, scommetto che i Ragazzi del ‘18 inquilini
di questo cimitero ora stanno facendo l’appello,
organizzando i turni di piantone, distribuendo la posta,
e fanno un gran casino alla fila del rancio. Molti di
loro hanno trovato una morte inutile, basti pensare alle
12 battaglie dell’Isonzo. Immani massacri per conquistare
(e perdere dalla sera alla mattina) poche centinaia di
metri, vittime sacrificate al dio della Strategia sull’altare
della Tattica da parte di generali tanto baffuti quanto
ottusi.
Anche i “caduti” del sabato sera 2002 sono
morti inutili. Loro, però, sono davvero morti per
niente. Nessuno se non i parenti stretti, li ricorderà.
Non lottavano per una causa, non erano parte (spesso inconsapevole)
di un ingranaggio che si muoveva verso l’Indipendenza,
ma sono stati fagocitati da mostri che si chiamano Consumismo
e Conformismo. Hanno avuto la libertà di scegliere
come giocarsi la vita, ma sono stati i loro avi che gliel’hanno
fornita. La moda del momento è quella di voler
abolire la Guerra, ideale nobile ed utopistico. Proviamo,
anche se non ci riusciremo. Non accetto, però,
che si voglia abolire tutto quello che concerne le guerre
passate.
Non mi va di abbandonare una seconda volta i Ragazzi del
‘18, non voglio lasciarli di nuovo soli in cima
ad un ghiacciaio o nelle trincee del San Michele, non
se lo meritano. Perché non nutrono più odio
o rancore (forse molti di loro non ne hanno mai provato
nemmeno per il nemico), e ad ogni passante che entra nel
Sacrario paiono dire: “Oh, ciao, grazie della visita.
Se passi di qui, fatti vivo, almeno tu! Noi ci siamo sempre,
qui sei al sicuro, tra amici. Se ci porterai un fiore,
noi te ne racconteremo delle belle”. Non meritano
di essere chiamati assassini come non meritano di essere
presi in giro o compatiti, e non meritano di essere dimenticati.
In conclusione, a mo’ di epitaffio per questo piccolo
racconto prenderò spunto dalla prefazione letta
in un libro sui Bersaglieri, con la piccola libertà
di modificarla per renderla adatta ai soldati di tutte
le Armi:
AGLI UOMINI CADUTI SENZA GLORIA E SENZA NOME
PER DARE UN VOLTO ALLA STORIA DI QUEL PAESE
ED UN NOME A QUELLA TERRA
CHE GIURARONO SI SAREBBE CHIAMATA
ITALIA |