La
guerra, in apparenza, ha lasciati pochi segni. Esternamente,
le case, si presentano bene, ma internamente quale disastro!
Negozi svaligiati, mobili fracassati, merce gettata a
terra e calpestata mista alle più sconce immondizie.
Gli australiani si sono creati una fama imperitura di
barbari alcolizzati. Mi raccontano, tra l’altro,
che per aprire le saracinesche dei negozi vi attaccavano
un cavo d’acciaio agganciato ad un trattore che
partiva, trascinandosi dietro la saracinesca con pezzi
di muro.
Bengasi è stato il luogo di baldoria delle orde
inglesi ed australiane. Qui si alternavano i reparti,
che vi vivevano, per i pochi giorni di permanenza, in
stato di ubriachezza ripugnante.
Cose indegne di un esercito civile.
Usciamo da Bengasi disgustati e con propositi poco benevoli
verso gli australiani.
Prima di lasciare la città facciamo una capatina
sul lungomare e visitiamo la magnifica cattedrale. Ha
la facciata tutta bucherellata dalle schegge.
Un ufficiale del comando militare ci accompagna dove dovremo
pernottare.
Passiamo vicini ad un deposito di carburanti tedesco proprio
nel momento in cui tre aerei inglesi si gettano in picchiata
a mitragliarlo.
E’ un momento emozionantissimo! Le mitragliatrici
sgranano i loro colpi. Quelle antiaeree, subito entrate
in azione, colpiscono un apparecchio mentre sta per gettarsi
in picchiata per la seconda volta. Lo vediamo scivolare
d’ala poi precipitare al suolo rovesciandosi.
Uno scoppio, una fiammata e in un attimo l’apparecchio
è un grande rogo.
Tutto questo in pochi minuti. Ci allontaniamo mentre stanno
trasportando alcuni feriti.
Il paesino arabo dove ci fermiamo è al margine
di un palmeto magnifico dove i bersaglieri accampano.
Domani sosteremo qui, ad El Coefia, in attesa di ordini
e per rimettere in efficienza i mezzi che risentono enormemente
delle marce e del ghibli.
…….. Sul Gebel.
Mi sembra di non essere più in Africa.
L’occhio spazia, ricreandosi, su terreni coltivati,
sparsi di casette italiane, alternati con boschi verdi.
Coloni vestiti come i nostri contadini, sono intenti ai
lavori agricoli. Stiamo attraversando il Gebel cirenaico.
E’ il paese dei ventimila che hanno portate qui
le abitudini della nostra patria.
Ad ogni casa sventola la bandiera tricolore. Da qui la
guerra vera e propria non è ancora passata. Gli
australiani vi facevano, dal sud, puntate a scopo di rubare
più che potevano. Solo nei paesi avevano un presidio
stabile.
Dico a B…… - Ti piace? –
Mi risponde: - Si. Mi fermerei volentieri qualche giorno
a riposarmi se fosse possibile.-
Gli suggerisco: - Perché non ci mangi sopra un
bocconcino?-
Mi guarda e sorride: - No, non posso, questo paesaggio
mi fa pensare troppo all’Italia, al mio paese!-
Ha ragione. Qui si sente troppo la nostalgia della nostra
terra!
A El Faidia (Villaggio De Martino) trovo dei coloni bresciani.
Mi raccontano la loro vita; mi raccontano i soprusi e
le angherie subite durante il breve periodo dell’occupazione
inglese! Passo in loro compagnia un paio d’ore.
Ritrovo un po’ della mia vita e penso con dispiacere
che domani dovrò nuovamente partire.
…….. Derna.
Questo è l’ordine che mi hanno consegnato
stasera: ordine di servizio n. 57. per il Capitano Fracassi.
“Domattina alle ore cinque partirete, con la solita
scorta, per Derna. Qui vi presenterete al Comando di Tappa
dove riceverete ordini. Lascerete sulla strada due motociclisti
con la copia degli ordini ricevuti e proseguirete secondo
gli stessi.”
Parto. E’ anche bello andare senza sapere la meta.
Dal Gebel la strada si precipita sulla piana che precede
Derna con giravolte paurose, incise sulla parete di un
alto ciglione. Dai piedi di questo al mare vi sono circa
tre chilometri, ma da quassù, questo, sembra lo
lambisca. In certi punti si ha l’impressione che
la strada, dall’alto, si getti nell’acqua
azzurra, increspata da onde lievi e spumose.
Arrivo a Derna. E’ una bella cittadina tra la montagna
e il mare. Una grande piazza alberata col Municipio e
le scuole. Il solito mercato arabo, la solita fisionomia
della città di colonia.
Al comando tappa ricevo l’ordine. Lascio i due motociclisti
e proseguo.
Si risale un altro ciglione identico a quello percorso
nella discesa. Sulla sommità trovo un grande immenso
campo d’aviazione. Oltre questo nuovamente il deserto.
Ain el Gazala: una cantoniera.
Al diciannovesimo chilometro da Tobruck lasciamo l’asfaltata
e prendiamo la pista, che è un mare di sabbia,
ed arriviamo, attraverso a questa strada impossibile,
ad Acrona.
Radi colpi di cannone si odono in lontananza.
Acrona è un fortino circondato da tende interrate.
Vado a riconoscere il posto dove il reggimento dovrà
sostare.
Un ufficiale superiore tedesco mi si avvicina e mi chiede:
- Bersaglieri Trento? –
Voleva dire, bersaglieri della divisione Trento!
Gli rispondo: - Signor si.- Mi da la mano e dice tutto
sorridente: -Molto prafi, molto pene.-
Penso: -Si, non c’è malaccio!- Ride lui,
rido anch’io. Ci guardiamo un po’, poi, siccome
comprendiamo che non sappiamo dirci altro, ci salutiamo
tutti e due felici e andiamo ognuno per i fatti nostri.
Stanotte dormiremo tutti in tenda in mezzo al deserto
della Marmarica.
Il cannone continua a brontolare le sue rampogne, non
molto distante.
………in linea.
Alle diciannove il Signor Colonnello ritorna dal comando
di divisione con gli ordini.
Il reggimento deve sostituire, al più presto, il
reggimento tedesco che tiene la linea del fronte ad est
di Tobruck.
Alle tre, dopo un breve sonno, io ed il tenente B….
montiamo in macchina.
Caro B….. fatti coraggio! Siamo quasi giunti a destinazione,
- dico al mio compagno di viaggio.
Mi guarda pensieroso ed osserva: - Come si fa a camminare
in questo buio senza strada? –
Io ieri sera, però, mi sono fatti i miei calcoli
esatti.
So che facendo circa tre chilometri verso est troverò
Acrona; che da Acrona, seguendo la pista che punta verso
sud, dopo circa trenta chilometri, troverò la pista
che va ad el Adem e poi verrà giorno e, ringraziando
Dio, sarà tutto chiaro. Quindi bussola luminosa
alla mano e via.
In lontananza, dalle prime linee, si innalzano razzi illuminanti.
Il rumore del nostro motore rompe il silenzio profondo
e mi dà ai nervi come una cosa stonata.
Non parliamo più. Ognuno è a tu per tu coi
suoi pensieri e col suo cuore. La visione dei miei cari,
ma specialmente del mio Vittorio che dorme nel suo lettino
coi pugnetti chiusi mi torna insistente alla mente e mi
fa un po’ male al cuore.
Alle otto siamo al comando tedesco.
Guardo B…… ha la divisa completamente coperta
di polvere, che gli ha messa una maschera anche sul viso.
Certo sarò così anch’io.
Una sentinella ci indica gli uffici. Ci presentiamo: molti
ja, molte strette di mano, molti sorrisi aperti.
Ripartiamo con una macchina tedesca. La nostra aspetterà
qui. Bisogna andare verso est per trentasei chilometri.
Svoltare a sinistra prima vorrebbe dire andare a finire
sulle linee inglesi: combineremmo un bell’affare!
Il ghibli che si è alzato furioso, accecante, non
rallenta la nostra corsa.
-Ma è la maniera di andare questa?- mi domando.
Certi salti! Per non essere sbalzati fuori automobile
bisogna stare aggrappati alle sponde con tutte e due le
mani.
Ogni tanto l’autista si volta a guardarmi e sorride
mostrandoci due file di denti bianchissimi.
Gli occhi luccicano tra lo strato di polvere che copre
la sua faccia e pare ci dicano: - Adesso siete nelle mie
mani! Amici! Vi concio io per le feste.
Attraversiamo la strada asfaltata. La stessa che abbiamo
abbandonata prima di Acrona. Abbiamo fatto il giro completo
intorno a Tobruck.
In una valletta verso il mare troviamo il Comando tedesco
che dobbiamo sostituire: altri grandi saluti, altri ja,
altri camarada taliano.
Assumo le informazioni che mi occorrono e le consegno
a B…… che ritorna presso il reggimento per
ragguagliare il Sig. Colonnello.
Io resto qui, con questi camerati che mi colmano di gentilezze,
di attenzioni, ma non mi tolgono la strana sensazione
che diminuisce, solo in parte, quando mi assegnano l’interprete.
Questi è un bel ragazzone di Bolzano, allegro,
che conosce il nostro reggimento.
Io ho già finito il viaggio. Sono già in
prima linea. Me lo dicono le due granate che passano,
frusciando, sopra le nostre teste.
Tobruck città è a soli quindici chilometri.
La prima linea inglese a meno di quattro.
Che Dio me la mandi buona
FINE DELLA SECONDA PARTE
Dal fronte est di Tobruck
Aprile 1941 XIX°
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